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di Maurizio Bernardelli Curuz
Viareggio. Il mare è lontano. L’atmosfera è rarefatta e velata di sabbia. Sul tavolo una fitta collezione di vecchie sveglie ferme e di accendini metallici. Luporini è una persona lieve. D’un intelligenza acuta, che non conosce l’esercizio della rapacità. Ha il sorriso di un giovane attore degli anni Sessanta. Sono le undici, si è svegliato da poco. Alle pareti del piccolo appartamento oscillano i suoi mari metafisici e s’incardinano i disegni della sua bambina, dominati da soli gialli che hanno la stessa accensione dei fiori di tarassaco. Ora, considero, vorrei sapere il momento in cui, dall’orizzonte scompare il sole-ragno, dalle dita tiepide. Nei dipinti del pittore c’è un grigio invernale. Il minuscolo studio odora di olio e di essenza di trementina. Da qui non escono più di cinque quadri all’anno. Adriano Baldi, presidente dell’Adac, l’associazione che cura l’opera di Luporini, indica un dipinto sul cavalletto. Luporini temporeggia amabilmente. “Mancano le velature agli ombrelloni chiusi”.
La prima immagine. I quadri che hanno rappresentato il motivo per il quale confrontarsi con la pittura.
Studiavo ingegneria, ma il mio incontro fulminante fu con i libri d’arte. In particolare, tra le pagine, incontrai tre pittori. Sironi – molto materico; mi piaceva la robustezza della materia – De Chirico e Morandi. Il mio obiettivo era quello di individuare una strada autonoma che fosse sintesi di tre modalità diverse di osservare e di rappresentare la realtà. Ora spero di essere riuscito nell’intento. Il mio primo passaggio fu a Roma, dove frequentai la scuola di nudo. Roma era luogo per cinematografari. L’asse della ricerca artistica passava invece per Milano. Nel periodo romano ha posto comunque le basi tecniche. Lavoravo preparando i quadri con una base di cementite e intervenivo con velature. Era un’epoca nella quale si manifestavano due tendenze: il realismo sociale e l’astratto.
(guardiamo insieme il catalogo. Luporini indica un suo quadro del 1955, quello posto in apertura del libro, un “Ambiente di Pescheria”)
Ecco, vedi? Ero attratto dalla rappresentazione della realtà, ma ciò che mi prefiggevo non era cogliere le atmosfere cantate dal realismo sociale. Sono fondamentalmente partito dal realismo quotidiano. A Roma, in quegli anni, bastava guardarsi attorno per cogliere la crudezza di una città postbellica.
Quindi l’incontro con l’esistenzialismo. Un movimento – più che un ceppo filosofico tout court – con il quale ti sei confrontato con passione.
Sì, l’esistenzialismo è stato importante. Avrò letto due o tre volte “La nausea” di Sartre. Non so poi quanto, realmente, tutto ciò abbia inciso in modo diretto, dal punto di vista filosofico, sulla tela. Anche in quegli anni, io e Banchieri leggevano molto. Molti romanzi. Eravamo attratti dall’idea di portare l’uomo al centro dell’opera. Pensavamo alla necessità di un nuovo umanesimo.
Il cinema. Nei tuoi quadri si respira un’atmosfera vicina a quella filmica.
Hai ragione. Il cinema è stato molto importante. Andavamo a vedere anche molti film. Sicuramente sulle mie prime opere ha inciso il taglio del neorealismo filmico, che non era enfatico né politicizzato come certo realismo, in pittura.
E successivamente, in una visione che sta a metà tra l’incomunicabilità e la metafisica, tu devi aver osservato un mare al quale guardarono anche Antonioni e Fellini. Antonioni, Fellini e Bergman. A Milano nasce il gruppo del realismo esistenziale.
Sì, eravamo giovani pittori accomunati da un sentire convergente e anche da una certa comunanza nell’approccio tecnico al quadro. Condividevamo gli stessi studi e la vita. Avevamo lo stesso mercante, quel Bergamini che era un venditore di carbone e che, come tale, aveva scambiato combustibile ricevendo opere. In questo modo era entrato in possesso di dipinti di Carrà e Sironi. Bergamini aveva così capito che era necessario investire sui giovani e su chi si affacciava alla ribalta artistica. Ricordo che si raccontava che il gallerista-carbonaio intervenisse con il suo pollice massiccio per correggere qualche gocciolamento di colore nelle opere di Morlotti… Il mercato in quegli anni era terribile. Zero assoluto. I critici s’infervoravano, ma la gente non acquistava. Per questo il ruolo di Bergamini fu importante.
A un certo punto anche voi, così attenti alla raffigurazione di oggetti e situazioni quotidiane. Sentite, il richiamo dell’astratto.
Nel 1958 siamo affascinati da Tàpies e Wols. E’ un richiamo limitato nel tempo, che si rende parzialmente evidente nelle nostre opere, fino al 1960. Personalmente amavo i dipinti di De Stael. Erano autori che comunque non lavoravano attorno all’idea di un astratto freddo. Guardando quei dipinti avevo la sensazione che fossero ritratti, ritratti drammatici di ciò che stava dentro di loro. Basta pensare alla fine che hanno fatto questi artisti. Uno è morto suicida nel volo da una finestra. Un altro si è ammazzato, mangiando volontariamente carne avariata. Un altro ancora si è impiccato col filo spinato. Verso il 1962 siamo stati parzialmente toccati dalla Pop art. Eravamo interessati al fenomeno, ma era più una curiosità intellettuale – volevamo capire se il racconto ossessivo dei beni di consumo fosse una critica o un canto alla società industriale – che un punto di riferimento per le nostre opere.
Attorno al 1965 nei tuoi dipinti appaiono scene allo specchio, ombre, brani figurativi mediati dal riflesso (e questo riflesso sembra diventare riflessione psicanalitica). Psiche più figurazione, uguale surrealismo. Sembra a questo punto che tu assuma un taglio surrealista.
Ho sempre guardato con un forte interesse Magritte e al suo modo di fare entrare in scena ciò che sembra assurdo e imprevedibile. No, Dalì non mi è mai piaciuto, come non ho mai amato il surrealismo letterario. Nel 1972 ascolto ciò che viene dall’America. L’iperrealismo suscita l’interesse di Ferroni e il mio, per l’atmosfera che è in grado di creare, anche se sono contrario al meccanismo di annullamento dell’oggetto postulato da quei pittori, attraverso il trattamento di porzioni di immagini raccolte dal video proiettore, dipinte e accostate.
Ed è facile avvertire, nei tuoi quadri del 1972, un contatto con l’iperrealismo, risolto in una chiave personale. I dipinti come “Nella strada” presentano un’analitica descrizione del moderno, con un incursione tra le icone pop, ma tu abbassi la gamma cromatica. La abbassi di un tono, come nelle immagini della memoria. Come nelle immagini che rievochiamo, proiettandole dall’interno, sulle palpebre.
Sì, è così. Non mi interessava la riproduzione fotografica della realtà e nemmeno volevo diventare un occhio meccanico. Cercavo invece di filtrare le immagini, di accostarle liberamente.
Negli anni Settanta crescono i dipinti in cui sono riconoscibili elementi viareggini. Nel 1980 lasci Milano. Non tronchi amicizie e collaborazioni, ma non avverti più la necessità di partecipare alla vita della metropoli.
Milano aveva smesso di essere un punto di riferimento. Negli anni della mia giovinezza era necessario vivere a Milano. Milano era un centro vitalissimo. Invece, poi, si è perso qualcosa. La capitale dell’arte si è trasformata in capitale della moda, ad esempio. Era certamente cambiato l’orizzonte dai tempi in cui si viveva di amicizia, di pane e di pittura. Poi, un tempo era tutto centralizzato. Invece tutto si è dilatato. Oggi non esiste più la preminenza delle capitali.
Il trasferimento a Viareggio, tua cittadina d’origine, coincide con l’assunzione di un nuovo registro, quello neometafisico. Ecco le spiagge, sotto una fredda luce invernale. Il mare che assume le caratteristiche di una sorda divinità. I gabbiani leggeri. Le scacchiere esistenziali (citi Bergman?) sotto una luce metallica. Le navi ormeggiate che sembrano in attesa di traghettare i passanti sull’altra sponda. Le persone che aspettano e camminano, o contemplano la vastità della distesa d’acqua come in un quadro di Friedrich. E ancora un reticolo di orme – che presto saranno sommerse dalla onde – di ossi di seppia, di umili macerie dell’abisso.
Montale. Sì, è giusto citare Montale. Montale ha inciso profondamente nella mia formazione e “Ossi di seppia” è una raccolta per me centrale. Nei quadri voglio accostarmi all’idea di un grande silenzio, sottolineando atmosfere di forte incomunicabilità… La gente cammina sulla spiaggia, ma ognuno è solo con se stesso. Il tempo è bloccato. Non c’è comunque angoscia. Non c’è dramma.