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di Stefano Maria Baratti
Secondo il prof. Alessandro Barbero: «Il brigantaggio è stato al tempo stesso un fenomeno criminale, una rivolta contadina, repressa dall’esercito italiano con una violenza inimmaginabile e una guerra civile. Se cerchiamo di semplificarlo, riducendo tutto a una sola dimensione, non capiamo nulla di questo fenomeno del quale, per decenni, non si è mai più parlato».
Il dibattito sul ruolo e sul significato da attribuire al fenomeno del brigantaggio postunitario italiano si è riacceso recentemente e polemicamente a causa della scoperta di una serie di atrocità che si susseguirono per anni sulle popolazioni meridionali, in seguito alla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti del 15 agosto 1863, una repressione che può essere annoverata tra le prime «pulizie etniche» consumata all’indomani dell’Unità d’Italia dai Savoia. Il tragico bilancio di un milione di morti fu il genocidio causato da questa legge istitutiva al comando del generale Cialdini, dove quasi la metà dell’esercito italiano fu implicato in fucilazioni, incendi, saccheggi, stupri e deportazioni in vari campi di concentramento istituiti a Fenestrelle, S. Maurizio Canavese, Alessandria, nel forte di S. Benigno in Genova, Milano, Bergamo, Forte di Priamar presso Savona, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno ed altre località del Nord.
La Mostra collettiva di pittura allestita nel Castello della Leonessa a Montemiletto (AV), curata da Adele Lo Feudo – parte della manifestazione intitolata «Le Quattro Notti dei Briganti» – offre un nuovo percorso di lettura degli avvenimenti che verificarono la nascita del complesso fenomeno del brigantaggio come violenta forma di protesta, alla quale contribuirono la triste realtà economico-sociale dell’Italia meridionale e la ormai secolare miseria della classe contadina. La rassegna svolta all’interno di questo imponente castello medievale–normanno si adopera non solo come strumento di veridicità sulle persecuzioni razziali verificatesi ai danni dell’esercito borbonico e della popolazione meridionale, ma anche per smascherare le notizie diffuse sull’argomento dalle fonti ufficiali, la cui strategia della menzogna e della discriminazione nella politica contemporanea da sempre associa il brigantaggio al nucleo della «Questione Meridionale».
Indubbiamente, soprattutto in Calabria, Puglia, Campania, e Basilicata,il fenomeno del brigantaggio contribuì alla formazione di bande armate che rifugiandosi nelle montagne cominciarono a rapinare, uccidere, sequestrare, incendiare le proprietà dei nuovi ricchi, tutti gli ingredienti di una rivolta popolare stimolata dalla propaganda borbonica che incitava le masse dei diseredati a considerare i conquistatori piemontesi come il nuovo nemico da combattere. Questo evento, destinato a lasciare un segno indelebile nella storia del nostro paese, segnò anche il primo distacco socio-culturale tra Nord e Sud, e la cui portata fu mitigata solo dalla fuga e dall’emigrazione forzata, nell’inesorabile comandamento di destino: «O briganti, o emigranti».
Le intenzioni della mostra di Montemiletto – a distanza di più di 150 anni da un massacro che investì l’intero Meridione – non vuole tuttavia riaprire una piaga manifestatasi in forma gravissima sin dai primi giorni dell’Unità, ma propone un ridimensionamento della portata simbolica del brigantaggio, con l’obiettivo di demolire l’immaginario encomiastico e celebrativo di una «missione punitiva» da parte delle truppe dei bersaglieri sabaudi per combattere l’«arretratezza» delle terre meridionali e pertanto giustificando atti di palese illegalità e violenza. La mostra vuole innanzitutto ripristinare la dignità stessa del del Brigante e della Brigantessa Italiani, divorziandoli dalle connotazioni della giurisprudenza classica che accosta i «latrones» (briganti) ai «praedones» (pirati), riconoscendo arbitrariamente nel brigantaggio solo categorie di crimini e aggressioni a mano armata e non gli ingredienti di una rivolta popolare antisabauda e antiunitaria, costituito da braccianti, contadini esasperati dalla miseria, ex soldati borbonici e perfino numerose donne, audaci e spietate come gli uomini, un fenomeno storico che interessò quasi esclusivamente i territori meridionali continentali ex-borbonici.
I cinque artisti che espongono sono (in ordine alfabetico): Adele Lo Feudo, Alessandro Maio, John Picking, Michelangelo Riemma e Igor Verrilli. Il loro contributo personale assume un forte valore simbolico e catartico attraverso il confronto di posizioni antitetiche e inconciliabili : da un lato la figura del brigante associato a fenomeni di banditismo armato, che nell’immaginario collettivo spesso regredisce a ribellioni primitive e sanguinarie, morbosamente attratti dal fascino dell’orrido, dall’altro l’immagine di un brigante-rivoluzionario, che, secondo la tesi revisionista, incarna l’espressione di un profondo malessere sociale. Ed è in tale ottica che assistiamo sia a ricostruzioni di prospettiva storica (Lo Feudo), sia ad interpretazioni soggettive (Picking, Verrilli), oppure simboliche (Maio, Riemma).
ADELE LO FEUDO
L’artista cosentina, organizzatrice dell’iniziativa, dedica la sua opera intera ai ritratti di sette briganti e brigantesse: Giuseppe Schiavone detto “lo Sparviero”, Giuseppe Nicola Summa detto ” Ninco Nanco”, Carmine Crocco detto “Donatello”, Pasquale Domenico Romano detto ” il Sergente Romano”, Vincenzo Macrini, Gaetano Manzo, Cosimo Mazzeo detto “Pizzichicchio”, Angelina Romano (bambina siciliana di 9 anni, fucilata), Michelina De Cesare, Filomena Pennacchio (compagna di Schiavone), Maria Lucia Di Nella detta “Maria la Pastora” (moglie di Ninco Nanco), Maria Rosa Marinelli, Maria Oliviero detta Ciccilla di Montalto e Maria Sofia di Baviera, l’ultima regina consorte delle Due Sicilie.
L’installazione di Lo Feudo si avvale di una performance intitolata «È Mio», nella quale l’artista «dissotterra l’anima» dei sette briganti – ritratti in acrilico montati su scatole mezze sepolte e posizionate al centro della sala – rivelando un cuore e un testo di pergamena sotto una bandiera tricolore – quasi una liturgia che ricongiunge ogni ritratto di brigante a fianco di quello di sette brigantesse già appese nello spazio espositivo con dei supporti in tessuto, incorniciati in atteggiamento devozionale (una tematica già precedentemente elaborata nelle sue opere recenti da lei stessa coniate «mini dipinti gioiello, oppure dipinti da indossare», una serie di immagini – nella maggior parte tondi realizzati con pittura acrilica su tela di lino, magistralmente adornate da collane girocollo fatte a mano, inserite in eleganti bordure di lurex con pizzi, piume, merletti, passamanerie, fiocchi, paillettes, nastri e cristalli, rigorosamente ricamate all’uncinetto o al chiacchierino). In questa sede, le inconfondibili composizioni «votive» di Lo Feudo rappresentano una soluzione di continuità all’interno della sua produzione pittorica, in un periodo concreto di riflessione, in particolare modo sulla ritrattistica, che dimostrano il progredire del suo stile e il suo virtuosismo tecnico: ritratti a mezzo busto o in primo piano, dove lo sguardo penetrante di uomini e donne – ripresi nella inquietante e gelida profondità del dramma individuale – dimostrano le virtù, il coraggio e la dignità degli esclusi dal tessuto sociale, contadini meridionali vittime dell’ignoranza e della miseria, che non avendo ancora maturato una conoscenza politica dei loro diritti, non riuscivano ad immaginare alcuna prospettiva di cambiamento. Lo Feudo ripropone il connubio maschile-femminile di questi soggetti, oggi ignobilmente dimenticati e accantonati, specialmente nella rivalutazione delle brigantesse – donne disperate, giovani orfane, vedove, vittime di atroci soprusi -che ribaltano lo stereotipo di passiva rassegnazione della donna nelle classi rurali della seconda metà dell’ottocento meridionale e dando vita all’affermazione del posto che il ruolo femminile occupa nell’ odierna società italiana.
ALESSANDRO MAIO
L’artista siciliano, assertore di un nuovo dinamismo pittorico basato sull’eredità poetica del vortice, spesso inserisce nella realtà che lo circonda, elementi calcarei di un terreno carsico e di una natura scomposti ed analizzati nei loro vari aspetti (simboli derivati da una rete più o meno diffusa di discontinuità strutturale generatisi nelle rocce a causa di deformazioni di natura tettonica), conferendogli una forza dinamica rotatoria e verticale che richiama la ricercatezza cromatica di Robert Delaunay e Vasilij Kandinskij. Ma contrariamente alle istanze del futurismo e del modernismo macchinista, le soluzioni cromatiche delle forme e dei ritmi di Alessandro Maio non si espletano nella ricerca di un fattore di violenta polemica, ma si avvalgono della concezione vitalistica e orfica di Bergson per creare uno spazio-tempo intuitivo, animato da colori dosati con istinti contrastanti, derivati da un paesaggio naturale – presumibilmente le aree carsiche siciliane, in relazione al tipo di roccia solubile affiorantela sua terra e da un terreno quasi caratterizzato dalla completa assenza di deflusso idrico, una sintesi astratta di scannellature, vaschette, inghiottitoi e grotte che scompongono la profondità di campo in un vortice di piani prospettici, nella ricerca di micro e macro morfologie che si trasformano in punti di massima energia.
Ci chiediamo in che modo un’artista che esprime contrapposizioni cromatiche, abbia voluto esprimere nell’ambito della mostra di Montemiletto una sua interpretazione del fenomeno del brigantaggio. Ma contrariamente a tutte le aspettative, la soluzione proposta da Maio (un’opera intitolata «Manipolatore di borsa…Brigante evoluto») non trova la sua base nel ritmo di contrasti cromatici simultanei, quanto invece in un «ritmo immobile» rappresentato da una sagoma scura e misteriosa di un uomo visto di spalle che esamina l’andamento delle borse mondiali, forse una personalità molto influente ma poco visibile che trama all’ombra del potere. Sul retro della figura risalta, all’interno di un «quadro nel quadro», il dipinto di un piccolo brigante Italiano postunitario, che concettualmente sembra suggerire un’evoluzione (o «involuzione», a seconda della chiave di lettura) da una classe povera soprattutto contadina (il brigante buono, ovvero l’«eroe» popolare) ad un’ «eminenza grigia», un macabro personaggio che assume caratteristiche e connotazioni di appartenenza a organizzazioni mafiose in un sistema globale di controllo verticale del potere. L’ipotesi, ovvero il «ritmo immobile» di Alessandro Maio lascia allo spettatore il compito di ricostruire una tesi sul fenomeno del brigantaggio: eroe oppure criminale? Questa reversibilità, non meno di questa polivalenza, conferisce all’analogia un campo universale d’applicazione.
JOHN PICKING
«There is a pleasure in the pathless woods, There is a rapture on the lonely shore» (Lord Byron, “Childe Harold’s Pilgrimage”)
Se l’impronta pittorica del rinomato maestro inglese John Picking è marcatamente naturalistica, allo stesso tempo è velata da un impulso di trasfigurazione idealistica e magica del paesaggio, non esente da un conflitto interiore tra armonia e caos, tra geometria e paesaggi illusionistici, contrasti che riconducono al termine «romantico», derivato dall’aggettivo «romantic», diffusosi in Inghilterra nel XVII secolo per indicare ciò che aveva connessione col «romance», vale a dire la narrazione fantastica, in contrapposizione alla narrazione realistica interpretata con il termine «novel». Come l’eroe byroniano – solitamente posto ai margini della società, con una personalità perennemente in conflitto tra varie posizioni, e sempre alla ricerca di nuove emozioni – John Picking, che ha scelto la Sicilia come sua terra d’adozione, forse non ha mai abbandonato Stonehenge, il complesso megalitico costruito nella pianura di Salisbury, dove alla perfetta integrazione architettonica delle varie parti che lo compongono, corrispondono numerose leggende associate al famoso cerchio di pietra neolitica. Per ottemperare a due esigenze, quella geometrica (la ragione) e quella caotica (il sentimento), lo spazio delle opere di Picking è sempre disomogeneo e spesso illogico, un corpus significativo di straordinari giochi ottici e prospettive invertite, in quanto ramificazione di diverse realtà che si fondono con lo spazio che li ingloba, dando vita alla fusione delle loro identità. Attraverso personaggi dal carattere minimalista e leggermente sfocati, contorni sfumati e colori tenui o pastello, con tonalità che variano dal blu al malva che ammorbidiscono i contrasti, Picking riassume ragione e sentimento come il campo di espressione della libertà assoluta, oggetto per eccellenza della creazione artistica, e tende a manifestarsi da un lato come passione inimitabile (ribellione alle convenzioni), e dall’altro come ragione che denota l’ordine e la geometria. Spesso le sue tele affascinano proprio per la loro semplicità e purezza e per una visione assai insolita – se non proprio enigmatica – del rapporto spazio-temporale all’interno di un labirinto che lascia innumerevoli possibilità di interpretazione.
Il contributo di Picking alla mostra collettiva curata da Adele Lo Feudo si intitola «Pittore in Calabria» e rappresenta una densa foresta misteriosa, forse incantanta (con un richiamo quasi leggendario a Nottingham) in una visione a volo d’uccello che rivela minuscole figure di briganti tra il verde cupo del fogliame. Si tratta di una «visione interiore» del brigantaggio, un insolito campo di indagine in relazione all’ emozione e all’inconscio. John Picking inserisce il contesto fiabesco nella sua interpretazione revisionistica del brigante calabrese, non come malfattore ma come individuo eccezionale, dotato di capacità di entrare in consonanza con il sentimento della natura, e che inconsciamente lo distacca dall’ambito sociale e quindi relegandolo al destino di solitudine.
MICHELANGELO RIEMMA
L’arte ancor oggi, così come il pensiero e la dinamica associativa, sembra conservare costanti riferimenti agli archetipi, che ne siamo o meno coscienti, nonché alla consapevolezza dei relativi fondamenti culturali, concettuali, tecnici e storico-stilistici che interagiscono con il proprio processo creativo. A questo proposito è di grande interesse l’opera del poliedrico Michelangelo Riemma , pittore, fotografo ed esperto di linguaggi multimediali. Riemma si potrebbe classificare come un artista ora surrealista ora concettuale, che esplora i territori della libertà immaginaria e della disinvoltura stilistica, ma occupandosi oltremodo di semiotica, psicologia e ansia sociale, questioni storiche e argomenti politici.
Quasi raccogliendo la carica di dissacrazione propria del dadaismo, l’artista partenopeo si propone come obiettivo una rivoluzione nell’interiorità stessa della sua ricerca , sfidando le regole classiche che determinano narrativa, estetica e funzionalità e creando spazi linguistici ibridi: pittura, fotografia, letteratura, linguistica, scultura e mass media si fondono in esuberanti iconografie – spesso degli autentici pastiches – che ripudiano ogni ricercatezza compositiva e trasgrediscono processi progettuali e operativi inerenti al settore sequenziale della comunicazione audiovisiva ufficiale. Ne nascono delle scissioni fra realtà e mondo onirico in problematiche prospettive tra sogno e allucinazione, decalcomanie, oggetti-simboli, fotomontaggi e composizioni tipografiche che sembrano riflettere lo «stato di fantasticheria supernaturalista» del poeta Guillaume Apollinaire. Non senza uno slancio istrionico, provocatorio e polemico, le opere di Riemma, avvalendosi di una vasta varietà di tecniche e mezzi, si inseriscono nel contesto di un’arte fondata sul pensiero (e non più su un ormai frainteso ed equivoco piacere estetico), dove si assiste alla sparizione dell’oggetto e si accentua il valore primario della dimesione mentale rispetto al manufatto.
L’opera «Michelina Stella del Sud» è dedicata alla leggendaria brigantessa Michelina Di Cesare (1841 – 1868) un elemento di spicco e stretta collaboratrice del suo uomo e capobanda Francesco Guerra. Uccisa assieme ad alcuni compagni nel 1868, il suo cadavere denudato fu esposto sulla piazza principale di Mignano come monito per la popolazione locale. Riemma propone la giustapposizione di elementi eterogenei (tra i quali un arma da fuoco e delle carte da gioco rappresentanti la brigantessa), «imballati» indistintamente all’interno di una massa organica avvolta da funi e che appare sospesa in alto con un gancio oppure tramite dei tiranti di imbracatura che ci ricordano sia l’enorme macigno del «Castello dei Pirenei (Le Château des Pyrénées)» di René Magritte, sia «L’élephant Célèbe» di Max Ernst. Simbolicamente, la matassa elaborata dall’artista, come delle lamiere contorte di vecchie automobili prossime all’accantonamento, connota il dramma delle donne del brigantaggio consumato nell’indifferenza, se non nel disprezzo, nel silenzio dell’opinione pubblica.
IGOR VERRILLI
Molto interessanti per la loro capacità di coniugare contemporaneità e tradizione, sono le immagini che illustrano la produzione pittorica dell’artista Igor Verrilli, un fertile terreno su cui si alternano da un canto le trasparenti razionalità del quotidiano, e dall’altro le potenzialità allusive della visione interiore del sogno. Con l’estrema vividezza di un attento osservatore, l’artista beneventano ritrae fisionomie di personaggi colti nei loro momenti di più intima quotidianità per proiettarli – tramite l’ambigua modalità del simbolo – in una rete di analogie che ne veicola le potenzialità allusive. Pur non esistendo una definizione univoca tra le due atmosfere ( la certezza del razionale e l’enigma dell’irrazionale, diametralmente opposte ) Verrilli riesce suo malgrado a conciliare i nessi inquietanti di un contesto storico (l’effetto fisico del presente) con il fittizio-immaginario (la forma assentedell’ignoto) trascendendo scopi puramente illustrativi per approdare ad una potenziale interazione delle metafore figurative, colte non solo nella loro plasticità emotiva e psichica, ma anche nella sensualità – che non diventa mai eccessiva, anche quando la carnalità dei modelli si fa più esplicita.
La pittura di Igor Verrilli ha come componente fondamentale la figura umana come simulacro culturale contemporaneo, uomini e donne che sono ripresi sia in contesti immersi in un’intima spontaneità, sia come delle idee rivestite di forme sensibili che fungono da protagonisti chiusi nella propria individualità. Questo teatro di personaggi comuni, occupano quasi sempre il centro dello spazio compositivo, dotato di autonomia, unicità e certezza, una soggettività spirituale che si ricongiunge cartesianamente nella fisicità corporea. I soggetti non vengono tuttavia semplicemente copiati dalla natura, ma trasmutati esteticamente con abilità e maestria, alternando una tavolozza di pastosi registri cromatici al classico tratteggio delle linee ndi tradizione gestuale, una vera immersione nel fermento solare di giochi di luce che raramente propongono zone di penombra.
Il tema del brigantaggio viene espletato da Verrilli con un’opera intitolata «La resurrezione di Ninco Nanco» basato sul famoso e più temuto brigante Giuseppe Nicola Summa, soprannominato Ninco Nanco (1833 – 1864), uno dei più fidi compagni di Carmine Crocco. Nel dipinto viene raffigurato il giovane corpo nudo del brigante secondo l’iconografia cristiana della resurrezione , dove lo spirito del martire viene magicamente riesumato dall’humus della terra, e attraverso una metamorfosi vegetale – liberato completamente dalla materialità – si eleva, in levitazione astrale, trasformandosi in una rassicurante forma armoniosa ed apollinea. L’artista mostra la dissoluzione materiale del soggetto lasciando intenzionalmente incompiuti i margini della tela, in modo da rivelare un intreccio dell’anima con il corpo, in un intarsio cromatico di verde cupo che unisce ragione ed emozione, mistero e inconscio, ma soprattutto l’immortalità dell’anima, come ci ricorda il testo della canzone di Eugenio Bennato «….e la sua anima è già distante, ma sul suo volto resta il sorriso, l’ultima sfida di un brigante: “Quant’è bello murire acciso”»
BIOGRAFIE
Adele Lo Feudo
In arte ALF, nasce a Cosenza nel 1967. Vive e lavora a Perugia. La prima personale è Ali per volare del 2010, a cui seguono Fucsia nel 2011, Tante mani per … nel 2012, Anima e Corpo e Riflessioni nel 2013, Artista d’avorio, Qui non si muore e Motus Terrae nel 2014, Messi a Nudo nel 2015, Presenze/Assenze: IO SONO! nel 2016. Organizza eventi come Un petalo rosa … per non dimenticare, coinvolgendo 65 artiste in un programma antiviolenza sulle donne, Nel 2016 realizza il progetto I Maccaturi, partendo dalla tradizione delle filande calabresi e coinvolgendo 106 artisti sul tema del recupero dei valori del passato.
Alessandro Maio
Nato a San Marco d’Alunzio nel 1966, vive e lavora a Torrenova. Frequenta l’ateliér del maestro John Picking. Ha esposto in diverse collettive ottenendo riconoscimenti e apprezzamenti dalla critica. Hanno scritto di lui: Alessandro Celli, Gianluca Covelli, Giorgio di Genova, Enzo Le Pera, Felicia Lo Cicero, Giuseppe Possa, Paolo Levi, Daniele Radini Tedeschi, Vittorio Sgarbi. Tra le sue mostre collettive più recenti vanno segnalate: Genova, 2013 IX Mostra Mercato Arte Contemporanea Padiglione Galleria Spazio Arte di Adrano CT; Padova, 2013 Contemporary Art Talent Show Padiglione Galleria Arone & Arone Reggio Calabria; Palermo, Villa Castelnuovo – Porto Franco- a cura di Vittorio Sgarbi.
John Picking
Nasce in Lancashire, Inghilterra, nel 1939. Frequenta la Scuola d’arte di Wigan e consegue il diploma nazionale di pittura. Vince la medaglia Governors e la borsa di studio per Parigi. Frequenta l’Accademia d’Arte di Edimburgo e vi consegue il diploma di pittura. Ottiene vari premi, tra i quali il premio Sketch Club e il premio Andrew Grant. Per un anno, sceglie di soggiornare e dipingere in Spagna.Nel 1964 viaggia e dipinge in Norvegia. Nel 1966 lavora alla sezione Ricerche Televisive per la Scuola presso l’Università di Londra. Il suo primo viaggio in Italia risale al 1969, dove soggiorna e dipinge per un anno in Sicilia e Toscana, e dopo un periodo in Inghilterra, viene prodotto un film documentario sul suo lavoro e vita in Sicilia intitolato Il Nostro John Picking girato da Lancastria Television per ITV2. Nel 1981 riceve la cittadinanza onoraria di Militello Rosmarino e stabilisce un secondo studio a Clusane, sul Lago d’Iseo. Divide il suo tempo dipingendo tra la Sicilia e Brescia.
Michelangelo Riemma
Nato ad Acerra (NA), vive e lavora a Napoli. Attualmente è docente di Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico statale di Napoli. Negli anni 80 partecipa all’allestimentodella mostra un Regard del Frac Rhone-Alpes nella Pinacoteca dell’Accademia di belle arti di Napoli, a cura di Jacqueline Rozier e Bruno Corà. Realizza negli anni 90 in collaborazione con gli scenografi Vincenzo Rizzo e Adriana Scotti un trompe-l’oeil su l’intera facciata del palazzo della Rinascente di Napoli sede di via Roma. È presente in diverse collettive sul territorio a partire dagli anni 80.
Igor Verrilli
È nato a Benevento nel 1969, vive e lavora tra Benevento e Termoli. Sono oramai venti anni che è presente nel panorama artistico nazionale, vantando numerose mostre personali, dalla terra di origine sino a Perugia e Milano. Tra le ultime, nella provincia beneventana, ci sono quella del 2010 Borderline, Galleria Art’s Events di Torrecuso, quella del 2007 Confessioni di una mente pericolosa, Galleria GiaMaArt studio di Vitulano e nel 2005 Harem Verrilli, Loft Libreria Masone. Nel 2003 espone quattro volte: Sottosopra, Galleria Il Gianicolo, Perugia; Nel Segno Dei Gemelli, Galleria Art’s Events, Torrecuso (BN); Il Pomo Della Discordia, Emporio Isola Milano 2003; Adulti si nasce, loft Orea Malia, Milan. Nel 2000 Primaverile Romana, Galleria Il Gianicolo, Perugia 2000 Il Baraccone Dei Folli, Castello Svevo Termoli, (CB).
Ma i briganti furono briganti? 5 artisti per un'estetica revisionistica del fenomeno
La Mostra collettiva di pittura allestita nel Castello della Leonessa a Montemiletto (AV), curata da Adele Lo Feudo - parte della manifestazione intitolata «Le Quattro Notti dei Briganti» – offre un nuovo percorso di lettura degli avvenimenti che verificarono la nascita del complesso fenomeno del brigantaggio come violenta forma di protesta, alla quale contribuirono la triste realtà economico-sociale dell'Italia meridionale e la ormai secolare miseria della classe contadina. La rassegna svolta all’interno di questo imponente castello medievale–normanno si adopera non solo come strumento di veridicità sulle persecuzioni razziali verificatesi ai danni dell’esercito borbonico e della popolazione meridionale, ma anche per smascherare le notizie diffuse sull’argomento dalle fonti ufficiali, la cui strategia della menzogna e della discriminazione nella politica contemporanea da sempre associa il brigantaggio al nucleo della «Questione Meridionale».