di Alessandra Zanchi
Tutti conoscono il forte legame che vi unì. Quando lo incontrò per la prima volta? Che impressione le fece? E cosa può raccontarci di Manzù come uomo?
Ci incontrammo per la prima volta nel 1954 a Salisburgo, alla Sommerakademie, dove Manzù insegnava scultura. Posso dire che fu amore a prima vista. La prima impressione è tutta legata al suo sguardo. Mi colpì la forza magnetica dei suoi occhi; solo incontrando Picasso ebbi la stessa sensazione. Lei mi chiede di raccontare Manzù uomo, ma è difficile separare l’uomo dall’artista. Comunque era forte e nello stesso tempo sensibile e timido. Era sincero e semplice, serio e ironico. Aveva anche il senso della teatralità.
Quanto all’artista, ci sarebbe veramente moltissimo da dire… Parliamo allora, per cominciare, della sua sperimentazione tecnica. Quali sono gli esempi più interessanti?
La sua tecnica stava tutta in quelle mani che plasmavano meraviglie come la “Bambina sulla sedia”, la “Signora in vestaglia”, fino alla Porta di San Pietro, che per me è il suo capolavoro assoluto. Se vogliamo parlare di sperimentazione, questa riguarda sostanzialmente i materiali. Per esempio le leghe di bronzo alle quali apportava modifiche direttamente, per controllare con i suoi occhi e ottenere un’infinità di ombre e di luci velate. In mostra ci sono poi diversi esempi in terracotta, cera, cristallo e legno, come la “Donna che guarda” in ebano, del 1983, alta più di due metri. Un discorso a parte meritano i suoi disegni, già accostati a Leonardo, le tempere, i pastelli e la grafica, per Manzù tutt’altro che secondaria.
Sa dirci di più sulla profonda religiosità di Manzù, che ha dato vita a capolavori come le “Crocifissioni” e i “Cardinali”?
Come tutti sanno, Manzù è nato da una famiglia povera che viveva un cristianesimo autentico, una religiosità evangelica fondata sull’amore di Dio e del prossimo. Questo traspare in molte opere, anche in quelle non strettamente religiose. Vi è l’umanità di Gesù nei suoi “Crocifissi”, nelle straordinarie quattro stazioni della “Via Crucis” della Chiesa di Sant’Eustorgio a Roma, in alcuni “Ecce Homo”, in bassorilievo e a tuttotondo, nel bozzetto della “Grande Pietà”, dove il pontefice sostiene Gesù, emblema dell’umanità sofferente, adorato da due vescovi inginocchiati. E non per niente chiamò i suoi bassorilievi del 1940 “Cristo nella nostra umanità”. Lo stesso spirito evangelico di amore e carità promana dalla scultura a figura intera di San Carlo Borromeo nella “Porta dell’Amore” della cattedrale di Salisburgo, dove narra la carità dei Santi salisburghesi, ed anche in alcuni disegni, fra i quali le illustrazioni per il libro “La via della Croce” di Nicola Lisi, edito nel 1953.
Un sentimento che in assoluto si concretizza nella porta della Basilica di San Pietro, commissionata nel 1952 e inaugurata nel 1964 come “Porta della Morte”. Fu una vicenda controversa, non è vero? E quale fu il rapporto con papa Giovanni XXIII, suo conterraneo?
Fu una vicenda sofferta più che controversa, difficile da spiegare in poche parole. Il primo concorso per la Porta risale al 1947. Manzù presentò un bozzetto. Poi si fece un secondo concorso. Ci furono prese di posizione a suo favore da parte dei critici più importanti e da parte di don Giuseppe De Luca, nobile figura di sacerdote, studioso, scrittore, editore e mecenate illuminato. Nel 1952 Manzù ricevette la commissione ufficiale con tema “Il Trionfo dei Santi Martiri della Chiesa”. Le difficoltà non dipesero tutte dall’indifferenza della Commissione… In effetti, Manzù non “sentiva” il tema. Con papa Giovanni, che Manzù incontrò ripetutamente per eseguire una serie di disegni e di ritratti in bronzo, ogni nodo si sciolse. Ebbe libertà di fare e di cambiare il tema. Con ritrovata passione, in pochi mesi portò a termine la “Porta della Morte”, che volle dedicare a De Luca. Il rapporto con Roncalli, un uomo pieno di luce, fu fondamentale per Manzù, che scolpì sulla Porta la grande novità del Concilio e della “Pacem in terris”. Pianse quando papa Giovanni morì. E con trepidazione prese il calco della maschera funebre e della mano che aveva scritto quella meravigliosa enciclica. Furono anche per me giorni di incredibile commozione.
Quali sono le altre sue grandi Porte sacre e quali i modelli di riferimento?
Una è la “Porta dell’Amore” di Salisburgo, alla quale ho già accennato, inaugurata nel 1958. La trilogia si completa con la “Porta della Pace e della Guerra” – il tema fu scelto da Manzù -, inaugurata a Rotterdam il 22 novembre 1968. In quanto ai modelli di riferimento, egli guardava agli antichi, tra i quali Fidia era il più amato. Ed anche a Donatello. Tra i moderni, inizialmente guardò a Rodin e a Medardo Rosso, ma poi proseguì per la sua silenziosa e solitaria strada.
La produzione di Manzù si articola in molti altri motivi, che sono spesso temi ricorrenti. Mi riferisco per esempio al “Pittore e la modella”, agli “Amanti” e poi alla sua predisposizione alla “natura morta” trasferita singolarmente in scultura. Si parla di Caravaggio come sua fonte d’ispirazione…
Manzù fu subito molto attratto dal tema della natura morta, come si può vedere da alcune opere in mostra. A me piacciono molto le “Sedie” con frutti, ortaggi, oggetti, e le sue “Canestre”, ispirate a quelle di Caravaggio alla Pinacoteca Ambrosiana. Ai piedi della grande scultura “Omaggio a Caravaggio” ne volle mettere una, vero capolavoro nel capolavoro. Manzù ammirava il sommo maestro. Anzi, aveva per lui una venerazione, per il coraggio della sua pittura così vera, per la sua vita così sofferta, per la forza e la bellezza che sprigionano i suoi dipinti.
Non si possono poi dimenticare, di Manzù, i meravigliosi ritratti. Come è stata per lei l’esperienza di modella?
Se ne possono ammirare molti, dal “Ritratto di Francesca”, al “Ritratto di Pio”, ai “Ritratti di Sonia” ed altri ancora. Quanto ai “Ritratti di Inge”, è difficile dire cosa significa per me essere stata, oltre che la moglie, la modella di Manzù. Talvolta era inebriante. Spesso si creava una silenziosa intesa. Talora la tensione emotiva ci lasciava esausti; altre volte sembrava un gioco ricco di fantasia. Vi è sempre un forte coinvolgimento fra l’artista e la modella, l’uno nella scoperta dell’altro. Era un’emozione indescrivibile, quasi venata di una sottile inquietudine nel vedermi riprodotta attraverso i suoi occhi e la sua arte.
La critica ha sempre visto nell’arte di Manzù un poderoso sentimento poetico. Mario De Micheli sosteneva che più che di “Valori Plastici”, per Manzù si dovesse parlare di “valori plastico-espressivi”. Ne è un grande esempio il “David” del 1938. Come si poneva quindi lo scultore rispetto alla sintesi primitivista che contraddistingueva gli anni Trenta e Quaranta? Quali sono i maestri a cui guardava? E come erano i suoi rapporti con Martini e Marino Marini?
E’ vero, in Manzù è sempre evidente il sentimento poetico. Ma penso che ogni forma d’arte debba esprimere la poesia. Credo comunque che ogni definizione di una personalità come Manzù ne esprima solo un aspetto, non la complessità. Nei suoi cambiamenti, egli è stato assolutamente coerente e lineare, senza contrapposizione, in un continuo divenire, come in fondo è la vita. Il “David” è una scultura davvero straordinaria per forza espressiva, plastica e, vorrei dire, di movimento, ma anche per sintesi di forma e significato. Per avere un’indicazione sugli autori preferiti da Giacomo, basta sfogliare la bella serie di dipinti a tempera e pastello delle “Copie dai miei Maestri antichi e moderni”. Copiando a suo modo, Manzù rese omaggio a Giotto, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, il già citato Caravaggio, Velázquez, fino a Rembrandt, Vermeer, Rubens, Manet, Ingres, Modigliani, Picasso. Bisogna poi dire che Manzù viveva nel suo tempo. Vedeva le novità delle varie correnti, ma seguitava per la sua strada. Per quanto riguarda quindi il suo rapporto con l’arte di Martini e Marini, posso citare Argan quando afferma che “Manzù si distacca sia dall’immagine retorica di Martini, come dall’oratoria austera di Marini”.
Prima della Sommerakademie di Salisburgo, Manzù insegnò scultura a Brera, dal 1940. Cosa ci può dire di Manzù insegnante?
Manzù fu titolare di cattedra anche a Torino fino al 1954, quando lasciò Brera, dopo che il Ministero della Pubblica istruzione aveva respinto una sua proposta di riforma delle Accademie di Belle arti. Il “maestro” Manzù voleva insegnare ai giovani solo una cosa: che “ogni opera d’arte scaturisce unicamente da un moto d’amore”. In un discorso ai suoi allievi di Salisburgo, dove insegnò fino al 1960, riprende e specifica meglio questo concetto: “La condizione essenziale per la vostra opera è che dal vostro intimo scaturisca un fuoco che investa la materia che non può restare semplicemente tale, perché sotto le vostre mani dovrà sublimarsi in spirito. Anche la pietra più dura, modellata dagli antichi Egizi, non mostra più traccia della durezza e delle difficoltà di lavorarla. La concezione plastica non deve essere ispirata da pregiudizi formali, ma soltanto dall’amore. Non lo dico soltanto per voi ma anche per me stesso”.
Per concludere: come è nato il Museo di Aredea?
La “Raccolta Amici di Manzù” fu una mia idea. Desideravo per le grandi opere di Giacomo, per i suoi disegni, i suoi gioielli, un museo vivo, che fosse anche luogo di incontri culturali e umani, luogo di studio e di conoscenza approfondita dell’artista. Con tanti amici sono riuscita a realizzare questo sogno. La Raccolta fu inaugurata il 22 maggio 1969, e io ne rimasi il presidente-direttore fino al 1980, quando venne donata allo Stato italiano con il nome di “Museo Giacomo Manzù”.
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