Riproponiamo un’importante intervista, nata dall’incontro, nel 2001, tra il critico Enrico Giustacchini, vicedirettore di Stile Arte, e Mimmo Rotella (1918-2006)
di Enrico Giustacchini
“Vorrei che il pubblico capisse che l’arte non è abilità, ma è un linguaggio creativo. Molti vedono un bel quadro e pensano che quella sia arte: no, quella è abilità. Una ‘bella pittura’ la può fare anche l’allievo del quarto anno di Liceo artistico. E’ pure un fatto educativo, che dovrebbe aprire la mente a tanti collezionisti, galleristi e artisti che sono rimasti ancora assai indietro”.
Comincia così, con un limpido messaggio, l’intervista che uno dei maggiori artisti italiani viventi, Mimmo Rotella, ha rilasciato alla nostra rivista. A lui chiediamo subito dopo: la sua figura è spesso associata, almeno dal grande pubblico, ai “décollage”. Può raccontarci qualcosa a proposito di questa tecnica, ovvero come e quando è nata, come si è sviluppata, quali sono le sue caratteristiche?
“Fino alla nascita dei décollage, nel 1953, io facevo della pittura neo-geometrica. Avevo studiato tutti gli stili e tutti i più grandi maestri, da Kandinskij a Mondrian, da Picasso a Matisse. Poi mi trasferii per due anni negli Stati Uniti, e realizzai una mostra anche lì. Quando tornai in Italia, non volevo più dipingere, perché ero giunto alla conclusione che tutto ormai, in pittura, fosse stato fatto. Una mattina del ’53, mi trovavo nel centro di Roma, e osservavo i muri completamente tappezzati di manifesti pubblicitari lacerati. Ciò mi colpì moltissimo, e pensai: ‘Ecco le nuove immagini che io devo dare al pubblico’. Nessuno aveva mai fatto questo. Così è nato il décollage: è stata una sorta di… illuminazione zen. Allora uscivo di notte dal mio studio e rubavo i manifesti dai muri. Una sera venne a vedere i miei lavori un critico giovane e molto intelligente, un filologo, Emilio Villa. Fu entusiasta, e mi disse: ‘Tu stai inventando una nuova forma d’arte, che va al di là della pittura’. Mi invitò ad allestire una mostra con sei pittori romani sul Tevere. All’inaugurazione c’era un critico americano, il quale sostenne nella sua recensione che l’unico a proporre un nuovo messaggio ero io. Mi definì ‘neo-dadaista’. Dopo questo articolo, arrivarono altri noti critici e galleristi, anche dalla Germania. Fu così che ottenni il mio primo, vero successo”.
Fu proprio Emilio Villa a parlare di décollage come di “scoperta di uno spazio nuovo rispetto al collage cubista”. Lei è d’accordo con questa interpretazione?
“Sono d’accordo, ma penso che si possa definire pure come scoperta di nuovi mezzi e di nuovi messaggi: quelli della pubblicità, del cinema, della politica. Ho affrontato personaggi quali Marilyn Monroe e Kennedy, e realizzato parecchie opere anche di carattere, appunto, politico”.
Nel 1960, su invito di Pierre Restany, lei partecipò – con Arman, César, Deschamps, Klein, Christo ed altri artisti – al gruppo dei Nouveaux Réalistes. Quale ricordo ha di questa esperienza?
“Quell’anno, Restany mi mandò un telegramma in cui mi invitava a raggiungere il gruppo dei Nouveaux Réalistes della scuola parigina. Conobbi anche gli altri artisti, e fu sicuramente una bella esperienza colloquiare con loro. Nel ’62 feci la mia prima mostra a Parigi, intitolata ‘Cinecittà’: si basava su manifesti cinematografici che avevo strappato a Roma, e dove apparivano Sophia Loren, Marilyn… Era il periodo in cui gli americani abbandonavano Hollywood per venire a girare in Italia, dove la manodopera costava meno”.
Del 1963 sono le prime opere di “Mec-Art”, stampe fotografiche su tela emulsionata. Alla fine degli anni ’70 lei realizza le “Artypo-Plastiques”, prove di stampa riportate su supporti di plastica. E ricordiamo ancora le “Coperture”, altro importante capitolo del linguaggio dell’affiche, esposte alla Biennale di Venezia. Esiste un filo conduttore che collega questi passaggi ripetuti fra stile e stile, tecnica e tecnica?
“Sì, consiste nell’evoluzione di un’arte, una tecnica, un’idea che converge sempre sul décollage, il messaggio dei muri della strada. Un’evoluzione logica”.
Nel 1990 si verifica da parte sua una “riappropriazione” della pittura, con i ritratti di grandi artisti del XX secolo dipinti su décollage. Può dirci qualcosa al riguardo?
“Nel 1986 ha cominciato a dipingere su manifesti pubblicitari, creando un ‘messaggio sul messaggio’. L’arte di per sé è messaggio. Passando per la metropolitana vedevo dei segni, dei graffiti, ma non secondo la chiave di lettura americana. Erano veri messaggi, che gli studenti o gli operai esprimevano sui manifesti. Allora ho pensato che anch’io avrei potuto affrontare quell’esperienza, offrendo, come dicevo, ‘un messaggio sul messaggio’”.
A che cosa sta lavorando attualmente? E quali sono i suoi progetti per il futuro?
“Sto lavorando su immagini molto belle del cinema degli anni ’30 e degli anni ’40. La prossima mostra che farò a Milano si intitolerà ‘Cinecittà, memoria e memorie’. Fin da bambino io scappavo di casa per andare a vedere i film muti di Charlie Chaplin e Buster Keaton. Il cinema è sempre stata una mia grande passione”.
L’attuale edizione della Biennale di Venezia le ha riservato una sala personale. E si è appena conclusa a Pisa un’antologica a lei dedicata, che ha esposto un centinaio di opere. E’ soddisfatto dell’esito di questi eventi? Che bilancio pensa di poterne trarre?
“Mi pare che siano stati tutti davvero bravi. A Pisa hanno organizzato la mostra molto bene ed hanno realizzato un bel catalogo, ricco di documenti importanti del mio percorso artistico. Ci sono sempre idee e vocazioni nuove, esperienze che si moltiplicano all’infinito”.