Modica l’illuminato

Il pittore siciliano amato da Sciascia ha fatto della luce strumento di scavo nell’arte e nella vita. Nelle sue opere gli echi della lezione dei grandi maestri, da Piero della Francesca ad Antonello e Vermeer

Giuseppe Modica è un pittore siciliano (Mazara del Vallo, classe 1953) innamorato della luce. Della luce però non intesa come “fine in sé”, come scintillante e prezioso oggetto di rappresentazione, ma – piuttosto – come strumento di scavo nell’arte e nella vita.
Non che i suoi quadri non parlino d’altro: di distese marine, di saline, di palme e di limoni, di vigneti e specchi riflettenti, di mosaici, di infissi scrostati e di terrazze, di finestre aperte su Mozia e Selinunte, di immagini presunte di donne nude che affiorano dal nulla, di architetture arabo-normanne, di mulini a vento, di Agrigento, di Africa, Asia ed Europa, di Mediterraneo e Oriente, di Occidente, di oggi e di ieri, di ciò che muta e di ciò che non può cambiare, di andare e di stare, ma soprattutto… parlano di una “pittura illuminata”. Non solo nel senso del chiarore prodotto dai raggi del sole catturato con un’abilità sconcertante ma nel senso, più profondo, di una riflessione generale – illuminata e illuminante appunto – sul “fare” dell’artista.
Giuseppe Modica è la dimostrazione vivente di come si possa essere intellettuali e ricercatori visivi senza necessariamente usare strumenti espressivi diversi da quelli della tradizione. E di come sia sbagliato incartare gli artisti dentro etichette riduttive e fuorvianti per cui – tanto per dirne una – un pittore figurativo è necessariamente tradizionalista e un videoartista è necessariamente innovativo.
Ora, l’opera di Giuseppe Modica anche per questo è interessante, perché dimostra una persistente intenzionalità innovativa (modernista, persino neoavanguardista) perseguita attraverso la cocciuta resistenza alle lusinghe delle mode e del mercato da un lato e, dall’altro, attraverso l’esercizio quotidiano e certosino di una pittura che è meditazione e ricerca, sensualità e compassione, ma anche ragione pitagorica e illuminista. Un oggettivo sovversivismo percorre l’opera e l’investigazione di questo umanista appassionato e radicale. Suo malgrado Modica è un giacobino della pittura, della qualità e dello stile intesi come contributo personale al grande cammino che l’umanità ha intrapreso a partire da Altamira, non solo per contentare committenti e “far marchette”, ma per andare avanti, progredire e staccarsi di dosso l’idea della morte. Insomma, per vivere piuttosto che sopravvivere.
Il concettualismo di Modica, reso caldo dalla sua “sicilitudine”, è appunto tale perché sceglie la strada personale di una pittura che non è realista né visionaria, non è epica né intimista, non è espressionista né surrealista e nemmeno metafisica nel senso stretto del termine. E lo fa, facendo tesoro della lezione di Duchamp, o meglio di ciò che di Duchamp può essere conservato e sviluppato senza che l’arte ne muoia. E cioè la centralità dell’idea, del pensare rispetto al “fare”. In questo senso il pittore di Mazara del Vallo è “ideologico”. Nel senso che la sua idea della pittura viene prima della pittura stessa e coincide con quella di qualità e di stile.
Che questo si sostanzi in atmosfere calde e seducenti non significa nulla. Non è il reclutamento delle percezioni sensoriali lo scopo che l’artista si propone. Del resto, anche se i sensi fanno parte della vita, la loro proiezione corticale non è distante dalle zone della corteccia cerebrale che presiedono all’ideazione, alla formazione del pensiero. Per dirla più semplicemente, è anche con il cuore che si pensa. Chiedetelo a Feyerabend, il padre dell’anarchismo epistemologico, se avete dei dubbi, o a Renato Caccioppoli, che conciliava musica e matematica insegnando ai suoi studenti che il miglior matematico non può non essere – prima – un poeta.
Modica fa parte di quella schiera (speriamo) interminabile di uomini che prendono le mosse dal pensiero del più grande dei meridionali: Giordano Bruno. Un pensiero grande e unitario, insieme spiritualissimo, pre-scientifico e carnale. Un po’ come la pittura di Giuseppe, appunto, che è insieme emozione e ragione, emozione ragionata e ragione emozionante. Che non è occasione di svago ma, semmai, di infaticabile rovello sull’enigma di sempre: che cos’è la pittura e perché riesce a resistere persino allo sviluppo onnivoro della tecnoscienza e a quello caotico e anaplastico della comunicazione.


Modica sa bene che nulla si crea per partenogenesi, che l’arte non segue “diagonali ascendenti” e che il tempo nell’arte “è un circolo che ritorna al punto di partenza” (Argan). Per questo segue la sua strada guardando avanti senza trascurare quello che c’è alle spalle o di lato. Non rinnega i suoi maestri perché non ha il complesso del “passatismo”. Parla con affetto filiale di Piero della Francesca e della grande tradizione fatta propria da De Chirico e dal Realismo Magico, attraverso la lezione neoimpressionista di Seurat e quella del Divisionismo di Pellizza e di Morbelli. E non solo ne parla, ma intrattiene con essi un dialogo continuo, un po’ come fece Antonello da Messina, suo conterraneo, con i maestri del tempo.
Per queste qualità, non solo pittoriche ma intellettuali, Modica piacque a un altro intellettuale raffinato, Leonardo Sciascia, che si innamorò tanto di un suo dipinto da comprarselo e appenderlo dietro la scrivania. Accadeva nel 1986, anno in cui il grande scrittore siciliano scriveva sul Corriere della Sera: “…in uno stesso quadro di Modica la luce dà l’impressione di mutare, di star mutando e che ne ricevano la vicenda i colori, le forme”. Ma non sarà l’unica fervente amicizia intellettuale: ce ne saranno ancora con Tabucchi, con Bruno Caruso…
Una sarà, però, più grande delle altre: quella con Maurizio Fagiolo Dell’Arco, che porterà alla straordinaria mostra del 2002 a Mazara del Vallo, di cui lo storico dell’arte sarà curatore e che sarà inaugurata, purtroppo, solo dopo la prematura scomparsa di lui. Scrive Fagiolo Dell’Arco a proposito della protagonista della pittura di Modica: “Luce diffusa, luce proiettata, luce fredda e calda, luce e colore e colore luce. La luce affocata del deserto e quella opaca della tempesta. Tramonto e alba, crepuscolo e mezza luce. Proiezione e luce allo specchio, (…) luce fiamminga e luce olandese, luce di Antonello e luminosità di Piero della Francesca; luce tendente allo scuro di Stomer e luce tendente al chiaro di Vermeer. La luce della luce della luce…”. Quella che tutto sfiora e modella, che sigilla presenze ed assenze che, a seconda dell’intensità e del gioco delle ombre, allude o svela. Quella che indica la strada delle essenze.
Se è vero, come qualcuno ha sostenuto esagerando un po’, che la filosofia di tutti i tempi è un interrogarsi attorno al pensiero di Platone, noi crediamo che anche Modica coi suoi dipinti partecipi a questo grande e secolare dialogo. Un dialogo che si disinteressa della vernice della cronaca per occuparsi del midollo delle cose, del noumeno piuttosto che del fenomeno. Sarà per questo che sui celesti e gli azzurri, sui grigi e sui gialli di Modica aleggia il pulviscolo prodotto dalla pietra di tufo, per significare che la verità (la bellezza) non è solo – non è sempre – quella che appare.

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Stile Arte è una pubblicazione che si occupa di arte e di archeologia, con cronache approfondite o studi autonomi. E' stata fondata nel 1995 da Maurizio Bernardelli Curuz, prima come pubblicazione cartacea, poi, dal 2012, come portale on line. E' registrata al Tribunale di Brescia, secondo la legge italiana sulla stampa