Le sue tele, rare ma pregevoli, erano siglate con il monogramma “F.V.”, acronimo sibillino destinato a suscitare impressioni mutevoli per intensità e natura – dal mero interesse estetico alla ricerca storico-critica – per oltre tre secoli.
Furono gli intellettuali del Settecento, animati da fervido sentimento indagatore e dall’anelito ad una conoscenza sistematica di matrice illuminista, i primi a tentare di dare un’identità a quella sigla. Alcuni, scorgendo affinità stilistiche e formali con l’opera di Mantegna, pensarono a Francesco Veruzio, citato da Vasari quale allievo del grande Andrea. Ma non mancano altre ipotesi: Francesco Verla, Francesco Vecellio, Francesco Voliziano, Giovanni Demio…
Quella proposta da Giuseppe Sava in Un pittore del Cinquecento e il suo monogramma (edizioni Osiride) è forse la soluzione più convincente, cui l’autore è giunto dopo aver vagliato in modo scrupoloso le ricerche condotte dagli studiosi in più di trecento anni.
Una delle scarne certezze riguardo al percorso artistico del Nostro è data dal ristretto raggio d’azione della sua attività, circoscritta all’area del lago di Garda: da Riva a Ville del Monte sino a Salò. Dato, questo, che se da un lato chiarisce la comprensione dei lemmi bresciani innestati nel registro espressivo del pittore, dall’altro non spiega l’inconfutabile presenza di elementi stilistici che rimandano ad una esperienza formativa legata all’ambiente veneto.
La prima manifestazione assodata di “F.V.” è l’Adorazione dei pastori conservata nel Museo Civico di Riva del Garda, datata 1530: alcuni dettagli compositivi ricordano Bartolomeo e Benedetto Montagna, Cariani e Bernardino da Asola, artisti veneti notoriamente suggestionati dalle stampe tedesche. Suggestioni che si riversano nel dipinto, ad esempio nell’immobile Madonna, avvolta in un mantello così rigido da sembrare metallico e con il capo velato da una cuffia simile a quelle di moda nel nord Europa. Lo stesso vale per lo sfondo: tanto il pastore appoggiato ad un bastone e quello seduto con le braccia al cielo quanto i due montoni, l’uno bianco e l’altro bruno, che si fronteggiano corna a corna, si direbbero presi in prestito dalla Visione di sant’Eustachio di Dürer.
Palese, tuttavia, anche l’influsso della scuola bresciana, quale appare dal contegno pudico e umilissimo della Vergine e dal volto rustico, savoldesco di Giuseppe. La vis espressiva dei pastori in primo piano, la cui fisionomia è eccessivamente dura ed energica, ha indotto diversi critici a suggerire un’identificazione di “F.V.” con – già lo si ricordava – Giovanni Demio (all’anagrafe Giovanni Gualtieri), altrimenti noto come Fratino Vicentino, appellativo che evoca, oltre alle origini venete, l’appartenenza ad una qualche “fraternita” (confraternita).
Un’ipotesi fondata su riscontri di carattere stilistico e formale ma smentita dalle recenti scoperte archivistiche, che hanno messo in luce come nel 1532, ovvero nell’anno in cui “F.V.” era impegnato a Ville del Monte, Demio ricevesse a Brescia la commissione del Martirio di san Lorenzo: due impegni che non potevano essere assunti da un’unica persona.
Pertanto, assodate le analogie fra le opere dei due pittori, Sava propone un’altra interpretazione, confortata dalle ultime indagini documentarie: l’acronimo andrebbe sì sciolto in “Fratino Vicentino”, ma in riferimento a Francesco Gualtieri, fratello minore di Giovanni, con il quale condivideva l’epiteto. Di lui si ignora quasi tutto, almeno fino al 1542, quando è attestato a Magré, vicino a Schio, dove realizza l’altare del Corpo di Cristo per la chiesa di San Francesco, purtroppo distrutto dai bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale. Fu certo un’esistenza irrequieta la sua, segnata dalla perenne e travagliata ricerca di un’autonomia artistica che gli consentisse di affrancarsi dalla fulgente fama di Demio, con cui tuttavia collaborò in più di un’occasione.
Dinnanzi ai dipinti firmati “F.V.” e alle oscure vicende biografiche del Nostro, non sfugge il significato riposto in un altro degli pseudonimi a lui attribuito, “Lethe”: Lete è il fiume dell’oblio, in cui ci si getta per dimenticare il passato e cancellare ogni legame con le proprie radici.
Quasi che in questo eterno nascondersi, nel sottile ed ambiguo rifugiarsi in identità fittizie, egli urlasse l’impossibilità di una personale affermazione.