di Giovanna Galli
“Sono veramente pittori naïf quelli che stiamo guardando?”. La risposta a questa domanda è fornita dalle opere raccolte a Palazzo Bricherasio di Torino per la mostra “Da Rousseau a Ligabue. Naïf?”, nata con l’obiettivo di mettere a fuoco, con un preciso taglio critico, gli aspetti più significativi di quel genere figurativo che va sotto il nome, appunto, di arte naïf. Abbiamo rivolto alcune domande a Francesco Poli, curatore, con Daniela Magnetti, dell’esposizione.
“Da Rousseau a Ligabue. Naïf?” è forse la più grande esposizione organizzata in Italia su questo tema…
Per cominciare, vorrei specificare che la mostra ha questo titolo generale – che fa riferimento a un arco temporale che si snoda dal XIX secolo fino a circa la metà del XX – poiché è nata al fine di documentare in maniera storica precisa l’analisi che la critica ha compiuto intorno allo sviluppo e alle diverse manifestazioni di questo genere di arte, frutto di una creatività popolare e spontanea, ma che ha raggiunto nei casi più significativi un alto livello estetico. E’ stato poi aggiunto un sottotitolo: “I maestri dell’Europa naïf”, perché abbiamo volutamente concentrato l’attenzione sulla situazione europea, onde evitare una visione troppo allargata e generica di questo fenomeno culturale. Fatta eccezione per alcune opere americane, scelte per offrire una sintetica indicazione dei collegamenti fra Vecchio Continente e Stati Uniti, i circa 120 lavori selezionati sono appunto di autori europei.
Ma perché il titolo si chiude con un punto di domanda?
L’interrogativo che proponiamo nel titolo vuole suggerire l’idea che forse il termine “Naïf” potrebbe essere un po’ restrittivo, essendo stato spesso utilizzato con una connotazione per certi versi negativa… Ci si chiede se utilizzando tale definizione non si rischi di creare un “ghetto” di autori, esclusi da coloro che fanno parte del circuito ufficiale della storia dell’arte. Questi pittori in realtà hanno ricevuto la loro legittimazione all’interno delle avanguardie. Il termine “arte naïf” si è imposto intorno agli anni Cinquanta; in passato sono state utilizzate altre definizioni che hanno avuto meno fortuna: “artisti istintivi”, “artisti spontanei”, “primitivi moderni”, “maestri della pittura popolare”, e via dicendo. Intorno alla metà del Novecento “arte naïf” si impone come l’etichetta da tutti accettata per classificare criticamente questo fenomeno culturale, senza più ambiguità o valenze peggiorative. Un altro termine che chiarisce il concetto è l’inglese “outsider artists”, che fa proprio riferimento al fatto che tali autori sono cresciuti in contesti indipendenti rispetto al circuito tradizionale dell’arte, ma da quest’ultimo hanno poi ricevuto la loro piena legittimazione.
Dove si possono rintracciare le radici di questo riconoscimento ufficiale?
Al primo vero ed effettivo riconoscimento dell’arte naïf non solo come forma anonima e collettiva, ma come esplicita espressione di singoli individui, si assiste in Francia, a cominciare dalla scoperta del “Doganiere” Henry Rousseau, considerato il prototipo per eccellenza del pittore naïf. Dal punto di vista del mercato, il collezionista e critico Wilhelm Uhde è stato un personaggio chiave per l’avvio e la valorizzazione della pittura naïf come genere. E’ lui che “scopre” Rousseau, appassionandosi al suo lavoro e allestendo nel 1927 una mostra alla Galerie des Quatre Chemins dal titolo “Les peintres du coeur sacré” in cui, oltre alle sue opere, presenta quelle di altri quattro pittori (Bombois, Beauchant, Louis e Vivin). Si trattò di un evento molto importante, che affermò l’esistenza di un genere autonomo, caratterizzato da un’arte ingenua, sentimentale, pura, ma che suggerì anche la fondamentale distinzione tra artista popolare e artista propriamente naïf, laddove il primo trasferisce nel suo lavoro caratteristiche tradizionali fondamentalmente anonime, mentre l’altro, pur conservando le stesse radici tradizionali, spicca per personalità e per un marcata creatività individuale.
Presto il riconoscimento ufficiale dell’arte naïf oltrepassa i confini europei e giunge anche negli Stati Uniti.
Sulla scia di un’altra importante mostra allestita a Parigi nel 1937, anche negli Stati Uniti l’interesse per l’arte popolare nazionale cresce parallelamente a quello per gli artisti naïf intesi come individualità distinte. Il Moma di New York organizza nel 1938 la mostra “Master of Popular painting. Modern primitive of Europe and America”, che propone insieme opere di autori europei e americani. Dato culturalmente molto significativo è il fatto che questa mostra nel maggior museo americano viene segnalata come terzo grande evento dopo le esposizioni “Cubism and Abstract Art” del 1936 e “Fantastic Art, Dada and Surrealism” del ’37.
Esistono similitudini evidenti nell’interpretazione di questo genere d’arte nei vari paesi d’Europa?
Ciò che è ravvisabile come comune nell’attitudine naïf è lo spirito. Da un lato si osserva una matrice contadina che non si esprime tanto come modalità tecnica o espressività, quanto da un punto di vista strettamente tematico. Dall’altro lato, il discorso vale anche per alcuni autori provenienti da Paesi diversi, autodidatti, ma che, legati ad un clima “cittadino”, affrontano in maniera analoga temi legati all’architettura, alla dimensione urbana: per esempio il francese Vivin e l’italiano Metelli.
Il percorso espositivo segue uno sviluppo cronologico. Proviamo a ripercorrerlo presentando i principali autori presentati?
Per cominciare, molto sostanzioso è il gruppo dei pittori francesi: accanto a diversi lavori di Rousseau – fra i quali ve ne sono due appartenuti a Picasso -, che rappresentano il fiore all’occhiello dell’esposizione, abbiamo opere degli altri quattro autori della mostra della Galerie des Quatre Chemins: i paesaggi, le nature morte, i prosperosi nudi femminili e i singolari personaggi circensi di Camille Bombois, lottatore e sollevatore di pesi in piccoli circhi; i quadri dedicati a temi mitologici e dell’antichità di André Beauchant, giardiniere che accosta la pittura solo in età matura; gli enormi e coloratissimi mazzi di fiori di Seraphine Louis, cameriera di campagna; e, infine, le già citate meticolose vedute urbane di grande liricità dell’impiegato delle poste Louis Vivin. Abbiamo alcuni lavori dello svizzero tedesco Adolph Dietrich, contadino e boscaiolo, la cui pittura semplice e di rustica poeticità, ma dall’eccezionale forza plastica ed espressiva, viene “scoperta” negli anni 1917-20 da importanti galleristi d’avanguardia, come Goltz e Tennenbaum. Affascinante è pure la figura del georgiano Niko Pirosmani, molto amato da tutti i protagonisti delle avanguardie russe, che, quasi al livello di Rousseau, tratta con una straordinaria poesia i temi della vita di campagna e del rapporto con la natura. Ed ancora, un altro autore autodidatta dell’est, l’ungherese Csontvary, autore di paesaggi fantastici e di tele in cui si osservano riferimenti e suggestioni religiose.
E poi ci sono gli italiani.
Esattamente. In Italia l’interesse per l’arte naïf si sviluppa più tardi rispetto al resto d’Europa: all’incirca nei primi anni successivi alla Seconda Guerra mondiale. Il più “classico” dei nostri naïf è Orneore Metelli, la cui opera è totalmente conservata alla Pinacoteca comunale di Terni. Metelli era un calzolaio, che, oltre ad interessarsi di musica (suonava il trombone e il flicorno nella banda municipale), intorno ai cinquant’anni iniziò a dipingere. Nelle sue tele descrive con una figurazione semplice e istintiva, ma densamente poetica, la sua città, le campagne, i fatti quotidiani e le feste con uno stile assolutamente inimitabile. Poi vi è la figura straordinaria di Antonio Ligabue, la cui notorietà è fortemente legata al film girato sulla sua vita, ed incentrato sulla sua stramberia. Ligabue, scoperto da Marino Mazzacurati e da Cesare Zavattini, è stato prima di tutto un grande artista con valenze espressioniste e visionarie, dotato di una personalità molto originale, che paragonare – come spesso è stato fatto – ad una sorta di incrocio fra Van Gogh e Rousseau, è secondo me scorretto e fuorviante. Si arriva poi al terzo italiano in mostra, un autore un po’ più “rustico”: Pietro Ghizzardi, le cui figure sono cariche di una prorompente energia espressiva primaria.
In chiusura vi è il nucleo dei pittori di area croata…
Per chiudere quella che può essere considerata la fase storicizzata della pittura naïf, abbiamo gli autori croati, la cui produzione ha avuto particolare riconoscimento tra gli anni Sessanta e Settanta. Molto interessante è la figura del “caposcuola” Ivan Generalic, i cui più bei dipinti sono quelli realizzati su vetro, dove scene di vita contadina vengono in qualche modo sospese in una dimensione da favola. E ancora, meritano certamente di essere citati Mirko Virius e il più giovane Ivan Rabuzin.