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di Francesca Baboni
[“L]a bellezza del clima, i paesaggi stupendi che circondano Napoli, e i molti forestieri che ne chiedono sempre qualche ricordo disegnato e dipinto, avevano fatto sorgere un certo numero di artisti i quali, come per disprezzo, erano dagli accademici chiamati della Scuola di Posillipo, dal luogo dove abitavano per essere più vicini ai forestieri. Essi non facevano che in origine di copiare vedute, ma gli inglesi hanno generalmente molto gusto per questi lavori, li giudicano e li pagano bene.
Fu perciò necessario migliorare, e la Scuola di Posillipo fece infatti progresso, e crebbe di numero”. Così scrive nel 1867 Pasquale Villari, consacrando con questa sua celebre definizione, divenuta in seguito denominazione ufficiale, la nascita di un gruppo di pittori partenopei che intorno al 1830 si dedicarono esclusivamente al paesaggio, sotto la guida dapprima di Anton Sminck Pitloo e poi di Giacinto Gigante, autentico traino per tutti gli altri. Non una vera scuola dunque, quanto una corrente che si sviluppò nella città, formata da degni precursori dei futuri pittori della macchia napoletana. Del resto anche un anziano Domenico Morelli, nel 1900, riconobbe l’importante ruolo di questi innovatori. “Essi dipingevano, studiando sempre all’aria aperta – scrisse -. Era naturale che censurassero i ‘figuristi’ che dipingevano dal modello, con la luce dello studio, mentre volevano rappresentare scene all’aria aperta. I paesisti ci misero sull’avviso, la loro critica colpiva nel segno”.
Una critica che attingeva direttamente dalla tradizione. La pittura di paesaggio difatti a Napoli risaliva già alla metà del Seicento con l’opera di Salvator Rosa, e per tutto il Settecento era stata orientata a due filoni principali: il gusto dello scenografico e quello del vedutismo turistico. Seguendo il secondo, piccoli paesaggi realizzati a gouache erano indirizzati al mercato dei viaggiatori che, nel Settecento, avevano qui una tappa obbligata del loro Grand Tour italiano per ammirare il Vesuvio, gli scavi di Pompei e di Ercolano, le isole del golfo. Tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, Napoli era stata meta di famosi paesaggisti stranieri tra i quali Tischbein, Bonington, Huber, Vervloet, Corot e soprattutto Turner. La prima produzione della Scuola di Posillipo si rifece dunque al paesaggio di tradizione neoclassica e di ascendenza pittoresca, che si conformava alla “veduta” ampia, otticamente precisa e scenografica, con punto di vista rialzato a volo d’uccello. Puntando però soprattutto sui valori lirici e sugli umori romantici, assunse ben presto una posizione antiaccademica. Dal vedutismo settecentesco gli artisti della scuola (e in particolare Giacinto Gigante) appresero l’attitudine a trarre dal vero almeno gli abbozzi disegnativi.
Influenzata dunque dai pittori stranieri presenti a Napoli, da Turner, in città tra il 1819 e il 1828, con la sua luce violenta, da Camille Corot, rappresentante del nuovo paesaggio francese della Scuola di Barbizon, dall’austriaco Joseph Rebell, interprete di un paesaggio luminoso, da Johan Christian Dahl, autore di vedute napoletane di vivace espressività, ed infine dal belga Francis Vervloet, rilevante soprattutto nella fase formativa, la Scuola di Posillipo ebbe inizio intorno al 1820, quando l’atelier di Anton Sminck Pitloo, un vedutista olandese giunto all’ombra del Vesuvio nel 1816, divenne luogo di ritrovo e di apprendimento per giovani pittori. Nel decennio 1825-35 vi si raccolsero gli artisti della prima generazione, come Achille Vianelli, Gabriele Smargiassi, Teodoro Duclére, Vincenzo Franceschini, Beniamino de Francesco e Pasquale Mattej.
La novità ascrivibile a Pitloo sta nell’aver sovvertito il tradizionale studio del paesaggio introducendo l’osservazione dal vero della natura e la resa impressionistica degli effetti di luce e di colore. Una ricerca che lo accomunò, insieme al tentativo di conciliare disegno, chiaroscuro e colore, proprio a Camille Corot, che con la Scuola di Barbizon stava sperimentando per la prima volta la tecnica dell’en plein air. Una tecnica che si ritrova nei dipinti ad olio, come Castel dell’Ovo dalla spiaggia, antecedente al 1824, dove si nota un’interpretazione del paesaggio ancora classicheggiante ma una prima ricerca di resa atmosferica, o ne La Solfatara del 1830, dove la visione è focalizzata su trasparenze luministiche e lirismo atmosferico, o ancora ne Il ponte di Cava dei Tirreni, considerato uno dei capolavori della maturità, con note modernissime d’intonazione espressionistica.
Dopo la morte nel 1837 per un’epidemia di colera, l’allievo Giacinto Gigante, l’irregolare del gruppo, subentrò al maestro superandolo ben presto, diventando l’interprete più originale nella storia del paesaggio moderno napoletano. Punto di riferimento moderno del pittore era William Turner, da cui Gigante acquisì il modo di usare l’acquerello, nobilitandolo con l’esaltarne le raffinate potenzialità creative, come nel bellissimo Porto Salvo del 1842 circa, uno scorcio singolare di una inedita Napoli vista dal mare, o nella natura rigogliosa di Paesaggio sorrentino del 1850, trasfigurata in stato d’animo. Negli olii, egli coglie sapientemente la luce mediterranea, come nel dipinto La chiesa di Sant’Arcangelo a Cava del 1842 o in Tempesta sul golfo di Amalfi, dove l’effetto atmosferico è determinato da un raggio di sole che riesce a passare tra le nuvole ed illuminare lo specchio di mare prospiciente la riva. Tramonto a Caserta, quadro di notevole suggestione, ci rivela come la ricerca di Gigante fosse giunta a risultati stilistici molto aggiornati rispetto al panorama artistico europeo, al punto di anticipare rappresentazioni di puro colore che diverranno abituali solo dall’Impressionismo in poi. Accanto agli alunni della scuola si era formato un folto numero di fiancheggiatori, costituiti da interi nuclei familiari. I Carelli: il padre Raffaele, con i tre figli Consalvo, Gabriele e Achille; i Fergola: con il capostipite Luigi, i due figli Salvatore e Alessandro, e Francesco, figlio di Salvatore. L’osservazione della città, per questo numeroso gruppo di pittori, partiva proprio dall’alto di Posillipo, con vedute panoramiche, dalla “Tomba di Virgilio” fino alla Certosa di San Martino al Vomero, che Gigante utilizzava come osservatorio privilegiato.
Dagli anni ’60 però le cose iniziarono a cambiare. La seconda fase della scuola subì una certa ripetitività di schemi, il paesaggio andava modificandosi e ne mutava di conseguenza anche la sua percezione. Il romanticismo aneddotico di Gigante lasciò così il posto ad una visione maggiormente “reale”. La Scuola di Posillipo esaurì la sua vitalità tra il 1850 e il 1860, quando le nuove tendenze naturalistiche – che a Napoli furono introdotte soprattutto dai fratelli Filippo e Giuseppe Palizzi – resero inattuali la liricità così forte e ancora romantica di quei pittori, che ebbero il merito di aver avuto per primi il coraggio di guardare alla natura fuori dal buio del loro studio.
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VIAGGIO TRA I DIPINTI DELLA SCUOLA DI POSILLIPO
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