Ottavio Amigoni –

Nella Brescia del Seicento, Ottavio porta avanti il linguaggio del manierismo, in ritardo sull’arte del tempo, ormai evoluta verso il Barocco. E’ allievo di Antonio Gandino e, secondo la letteratura, anche del figlio di lui Bernardino; però, è la lezione del primo che influisce maggiormente sulla sua successiva produzione


Ottavio Amigoni è un interessante pittore bresciano del Seicento, che certo merita di essere conosciuto in modo più approfondito. Stile ha intervistato Luciano Anelli, studioso dell’artista. Ottavio non deve essere confuso con Jacopo Amigoni (cfr www.stilearte.it/jacopo-amigoni-la-vita-e-rosa-gratis-quotazioni-del-pittore-rococo/)
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Amigoni è un artista legato alla sfera di Antonio Gandino, ma la sua complessità non può ridursi al solo influsso gandiniano. Può approfondire questo aspetto?
 
Ottavio Amigoni nasce a Brescia nel 1606 e muore nel 1661 (data confermata da un documento che si trova nella parrocchia di Sant’Agata, pubblicato nel 2002). Nella Brescia del Seicento, Ottavio porta avanti il linguaggio del manierismo, in ritardo sull’arte del tempo, ormai evoluta verso il Barocco. E’ allievo di Antonio Gandino e, secondo la letteratura, anche del figlio di lui Bernardino; dal mio punto di vista, però, è la lezione del primo che influisce maggiormente sulla sua successiva produzione. Le opere di Amigoni presentano soluzioni formali di una narratività e una spigliatezza che non possono essere riferibili al contesto bresciano, ancorato al manierismo greve milanese con influssi veneziani (Venezia, città del colore, non ha avuto un vero e proprio manierismo, espressione basata sul contorno). La raffinatezza di questo pittore deriva da una “complessità” che va ricondotta alla cultura fiorentina della prima metà del Seicento, se non addirittura al terzo manierismo di fine Cinquecento. Artisti come Empoli e Ciampelli possono, credo, giustificare la modernità e la “stranezza” di Amigoni. Un altro riferimento è il Guercino, il cui disegno conservato nella Galleria Nazionale d’Irlanda a Dublino ha sicuramente influenzato la pala di Santa Maria dei Miracoli per la figura dipinta su un drappo.
Il catalogo di Amigoni si è arricchito di nuove attribuzioni. Può farci degli esempi?
Tra le opere restituite a questo pittore, vi sono i Misteri del Rosario di Verola, in cui le architetture risentono dell’influsso fiorentino. L’aspetto narrativo, tipico dell’artista, può essere colto negli affreschi di Santa Maria del Carmine raffiguranti, entro monumentali quinte, episodi della Vita di sant’Alberto Carmelitano. Straordinario è lo stendardo della Confraternita del Sacramento di Siviano a Montisola, dipinto sui due lati (Madonna col Bambino e i santi Faustino e Giovita e San Cristoforo che cammina fra le acque col Gesù Bambino); interessante l’Ultima Cena come Istituzione dell’Eucarestia di Inzino, di cui è disponibile una ricostruzione virtuale (l’opera è stata deturpata nel secolo scorso da un cattivo restauro in cui, scambiando elaborazioni autografe per aggiunte successive, si cercò di cancellarle).
Barbara D’Attoma ha attribuito ad Amigoni l’Ultima Cena di San Filastrio a Rudiano, che è assolutamente sua. La sensibilità nella resa luminosa della pelle dei bambini emerge dalla Madonna della Divina Grazia in San Bernardo a Collepiano. Gli ho anche attribuito: la Madonna con Sant’Antonio da Padova, san Pietro apostolo e san Michele arcangelo di Coniolo; la Madonna con san Fermo e san Carlo della pieve di Corticelle; la Madonna con san Sebastiano e san Rocco; San Nicola di Sant’Andrea Apostolo di Concesio; l’Assunta, sant’Antonio e altri santi (tela recuperata ad Adro nel 2001, già Cossali). Non è stata restaurata in maniera adeguata l’Annunciazione di Sant’Agata, capolavoro assoluto: l’orchestrazione dei panneggi dell’arcangelo è degna di Botticelli, il capo della Madonna rivela l’alunnato presso Antonio Gandino, strepitosa è la resa della luce umana e divina. L’opera è rimarchevole per l’iconografia dello Spirito Santo che prende luce dal Padre. Esempio di falsa attribuzione è l’Ecce Homo di Santa Maria degli Angeli a Brescia, pubblicato come copia del Tiziano di Madrid; benché ad esso ispirato per tipo di pittura, resa dei capelli e della corona di spine, lo ritengo un lavoro inconfondibile di Amigoni, che a volte sembra risentire del vigore disegnativo di Tanzio da Varallo negli affreschi del Sacro Monte. Il Sant’Antonio da Padova e il San Fermo di Flero, tele pubblicate di recente come del Giugno, sono invece autografe di Ottavio, riferibili temporalmente ai due Santi della sacrestia di San Zeno sul Naviglio che gli ho già assegnato. Infine riconosco come di Amigoni il Sant’Antonio da Padova con i devoti di Fiesse, dipinto “fiorentinissimo” per la composizione e la resa pittorica dei personaggi, che si trova a pochi metri da una spettacolare pala inedita di Pietro Maria Bagnatore, al quale senza dubbio guardò il Nostro per la finezza dell’introspezione psicologica, per gli accostamenti delicati dei colori e per la quieta contemplazione.


Quali rapporti instaura Ottavio con gli artisti del suo tempo?
Diversamente da altri che operano anche a Bergamo, egli lavora per lo più a Brescia. E’ sorprendente che non venga sfiorato dai tenebrosi veneziani o da Palma il Giovane, che in città era considerato un idolo, né lo tocca la pittura di Francesco Paglia che, sebbene più giovane di una generazione, dettava il gusto. E’ un autore che rimane estraneo al Barocco (che a Roma troneggia da ormai cinquant’anni). Sul piano pratico, secondo un’idea che sta approfondendo Fiorella Frisoni, è probabile che collaborasse con altri artisti, come Pietro Marone.
Quali sono le sue caratteristiche principali?
Amigoni è un pittore di pale sacre e affreschista. Ha una tecnica molto accurata: anche se usa prevalentemente l’olio, padroneggia perfettamente l’affresco, grazie all’influsso di Antonio Gandino. Nella tela con la Madonna e i santi Sebastiano e Rocco di Marone si coglie la ricerca coloristica, all’insegna dei rosa confetto, dei verdi che sfumano in rossi e arancioni accostati agli azzurri, con una resa qualitativa assente in altri manieristi conterranei. L’esecuzione dei putti, che per tenerezza di carne è più legata al Rinascimento che al Barocco, rivela una straordinaria vivezza. Le proporzioni delle figure si allontanano dalla monumentalità del manierismo locale per avvicinarsi a quello fiorentino. Tipico è anche il modo di rendere i panneggi, dai contorni taglienti, ben diversi da quelli arrotondati degli altri bresciani.
Può ricostruire brevemente la fortuna critica di Amigoni?
Seppur molto apprezzato dai suoi contemporanei, egli rimane un uomo “fuori dal tempo”. Sono in auge i tenebrosi veneziani, e Ottavio sembra essere nato troppo tardi: muore quando trionfa il Barocco, da cui si era sempre tenuto lontano. Il successivo oblio dipende così dall’incapacità di conoscitori, scrittori, pittori della seconda metà del Seicento e del Settecento di apprezzare un artista ancorato al tardo Cinquecento. La critica dell’Ottocento continua su questa strada, anche per la scarsità del suo catalogo. Paglia e Fenaroli comunque ne parlano bene. Il Murassi nel 1939 lo giudica sempre un po’ mediocre, ma tale errata affermazione deriva da un lato da uno studio non molto approfondito, dall’altro dal cattivo stato di conservazione delle opere: lo sporco e l’usura impedivano di cogliere la raffinatezza dello stile e della tecnica. E’ solo negli ultimi vent’anni che questo “squisito ritardatario” è stato rivalutato come meritava.
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 [PDF] Ottavio Amigoni



STILE Brescia 2007

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Redazione
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