Watteau perché dipingeva statue dalla pelle umana? E perché le distrusse?

Il fuoco si direbbe l’atto estremo di un pentito, ma pentitosi di cosa? Possibile si tratti dell’aver intuito e praticato anzitempo il sensualistico valore conoscitivo del tatto praticabile anche con il solo sguardo?



di Claudio A. Barzaghi
 

“Terribile è la mia vita e il mio destino,

per colpa […] della mia bellezza,

oh potessi imbruttire di colpo,

come una statua da cui vengano cancellati i colori”.

Euripide – Elena.

 
 
 
C’è sempre qualcosa di sfuggente e profondo in un auto da fé autoinflitto: c’è da un lato il tentativo di non lasciare tracce inopportune, un movente quasi certo, ma anche e forse soprattutto, un’estrema ricerca di salvifica purificazione.
Mondare col fuoco un’esistenza non vissuta in modo propriamente focoso, è l’ultimo atto di un importante esponente (descritto dal conte di Caylus come cupo, atrabile e caustico) della pittura francese del primo ‘700: Antoine Watteau.
Giunto ormai alla fine dei suoi giorni, minato da una malattia che non lascia scampo, l’artista che ha soggiornato in Inghilterra nel vano tentativo di trovare una cura, una volta rientrato in Francia decide di ridurre in cenere le opere di nudités  ancora in suo possesso. Watteau muore il 18 luglio 1721, ha solo 37 anni e “n’a point de maison qui lui appartienne, point de meubles, d’objets précieux, de collections, point de serviteurs ni de carrosse. Aucun luxe, aucunne marque de richesse […] ne laisse dernière lui que son ouvre” (Alfred Leroy, 1949).(“Non ha nessuna casa che gli appartenga, nessun mobile, oggetti preziosi, collezioni, nessun servitore né carrozze. Nessun lusso, nessun segno di ricchezza – … – Non lascia altro che la sua Opera, ndr).  Nonostante tutto decide di distruggere esattamente parte di ciò che ha creato e che sarebbe destinato a sopravvivergli.

Il fuoco si direbbe l’atto estremo di un pentito, ma pentitosi di cosa? Possibile si tratti dell’aver intuito e praticato anzitempo il sensualistico valore conoscitivo del tatto praticabile anche con il solo sguardo?
E’ nella seconda metà del ‘700 che riprende con vigore sistematico una riflessione iniziata più di due secoli prima : il ‘paragone’ tra le arti sorelle pittura e scultura. Tra i principali artefici della riflessione,  Denis Diderot (nei Salons) e Etienne-Maurice Falconet (estensore della voce Scultura dell’Encyclopédie, v. XIV, 1765).  Naturalmente è cambiato lo spirito e il modo dell’indagine, infatti, oltre ad aggiungersi un terzo polo rappresentato dal teatro, ora lo scopo non è più la determinazione della superiorità di un’arte sull’altra ma, coerentemente con l’esigenza di tutto razionalizzare, la ricerca dello ‘specifico’:  “il discorso sui rapporti e le differenze fra le arti viene declinato nella direzione delle diverse modalità sensibili, immaginative ed emotive attraverso cui esse coinvolgono lo spettatore (il mostrare alla vista o l’evocare nell’immaginazione attraverso il racconto), anche grazie al grande dibattito teorico sui rapporti tra i sensi (e in particolare fra la vista e il tatto)” (Michele Bertolini, 2012). Si sente a tal proposito l’esigenza di analizzare la specificità delle singole modalità espressive in relazione alla ricezione dello spettatore, e se per la scultura in particolare Falconet suggerisce che “È la natura vivente, animata, appassionata, ciò che lo scultore deve esprimere con il marmo, il bronzo, la pietra, ecc.”, Diderot rincara la dose istituendo un nesso diretto tra pittura e scultura (attribuendo loro quasi un fine comune): “quale che sia il soggetto rappresentato, lo scultore deve operare la metamorfosi del marmo in carne vivente, palpitante, animata, senziente. Come il colore, l’atmosfera e la luce in pittura restituiscono la vita, l’incarnato, l’aria alle figure e ai paesaggi dipinti, racchiudendo il segreto della magia, del fare della pittura, così la durezza del marmo, negando la sua stessa materia, si scioglie nella morbida dolcezza della carne e di un corpo animato” (Michele Bertolini, 2012). Non stupisce, quindi, in questo periodo e contesto l’assurgere del mito di Pigmalione e Galatea a paradigma della nuova sensibilità che, grazie al nuovo rapporto con le opere d’arte, ci parla dell’eros e lo risveglia, seppur mediato.


Con simili osservazioni siamo nella seconda metà del ‘700, ma è Watteau, e con significativo anticipo, a dare concretezza sensibile – perlomeno in pittura – all’idea della statua dotata di un potere di ‘sostituzione’, della statua come simulacro ‘esistente’ (che secondo l’analisi di Victor I. Stoichita: “mancante di un modello originario, il simulacro si dà come esistente di per sé. Non copia necessariamente un oggetto del mondo, ma vi si proietta. Esiste.”,è creazione attuata dal soggetto e ha vita a sé, talvolta in concorrenza con la stessa realtà) e non più semplicemente somigliante.
Dal 1715 al 1719 nell’opera di Watteau si assiste, infatti, a un ininterrotto susseguirsi di statue femminili nude e inequivocabilmente viventi. In questo arco temporale non vi è un venir meno dello spirito che caratterizza le sue fêtes galantes – il genere che lui ha inventato guadagnandosi l’accesso all’Académie nel 1717 – tutt’altro, eppure qualcosa di diverso si aggiunge. Tutto resta comunque leggero, quasi frivolo e superfluo, ma tra tanta compostezza e irreprensibilità eufemistica dei personaggi elegantemente abbigliati e agghindati, non si può non notare la presenza di figure alle quali viene affidato l’originale compito di suscitare emozioni, altrimenti blande se non assenti, e di assumere posizioni lascive e provocanti in un contesto in caso contrario asettico. Sono statue morbide e sensuali quelle di Watteau, letteralmente seducenti, e animate perché palesemente vive, come denunciano i colori, l’incarnato, l’atteggiamento e la parziale partecipazione emotiva alla scena. Sembrerebbero incresciose presenze all’interno di un mondo altrimenti pudico e ordinato, persino casto, a tal punto da essere raffigurate ostentatamente escluse e ignorate dagli astanti (siano essi uomini o donne), imperterriti nei loro conversari. Basterebbero Feste veneziane (detto anche Un ballo veneziano) [fig. 1] e I piaceri del ballo [fig. 2] per rendersene conto.
 

fig. 1, Watteau, Feste veneziane (particolare), 1718-1719
fig. 1, Watteau, Feste veneziane (particolare), 1718-1719

Fig. 2, Watteau, I piaceri del ballo, (particolare) 1716-1719
Fig. 2, Watteau, I piaceri del ballo, (particolare) 1716-1719

 
Non v’è sguardo che dall’interno indugi o si soffermi su queste creature, per lo più collocate ai margini della scena, se non nel caso del Convegno all’aria aperta [fig. 3] del 1717-18, in cui un gentiluomo impeccabilmente abbigliato e atteggiato sembra osservare meditabondo le prosperose terga della statua-fontana, d’altronde spudoratamente esibite.
Watteau,-Convegno all'aria aperta,1717-18, cm 60 x 75, Dresda
Fig. 3, Watteau,-Convegno all’aria aperta,1717-18, cm 60 x 75, Dresda

Nulla però è sostanzialmente cambiato, le atmosfere indefinibili vi trovano ancora conferma (impossibile, se non in minima parte, determinare il contenuto narrativo di questi eleganti convegni), così come l’artista si attiene a modalità ormai collaudate sul piano dell’esecuzione: “Le variazioni si basano su una tecnica che Watteau, prediligendo il disegno alle costrizioni della pittura, aveva messo a punto: consigliato da Caylus, era solito riprodurre su album da disegno disparate figure per poi, all’occorrenza, impiegarle per popolare le sue composizioni, a partire dallo sfondo. In questo modo, le figure circolavano da un quadro all’altro, rafforzando l’unità di lavori portati a termine anche nell’arco di dieci anni” (Dominique Jarrassé, 2002); e infatti, alcune nude con le loro fattezze e posture migrano di opera in opera. È esattamente quanto accade con La lezione d’amore [fig. 4] e Divertimenti campestri [fig. 5], dove la giovane nuda esorbita con una gamba dal piedestallo a segnalare la pretestuosità statuaria, o con Piaceri amorosi [fig. 6] e la seconda versione del Pellegrinaggio all’isola di Citera [fig. 7], in cui compare la medesima Venere in relazione maliziosa con Amore disarmato.
Watteau, Pellegrinaggio all'isola di Citera, (particolare), 1718.19
Watteau, Pellegrinaggio all’isola di Citera, (particolare), 1718.19

 Particolare - Piaceri amorosi - 1717-18
Fig. 4, Particolare – Piaceri amorosi – 1717-18

 Particolare - Divertimenti campestri - 1718 ca
Fig. 5, Particolare – Divertimenti campestri – 1718 ca

Watteau, La lezione d'amore, 1716.17 ca, olio su tavola, cm 43,8 x 60,9, Stoccolma
Fig. 6, Watteau, La lezione d’amore, 1716.17 ca, olio su tavola, cm 43,8 x 60,9, Stoccolma

 
 
Fig. 7, Watteau, Pellegrinaggio all'isola di Citera, (particolare), 1718.19
Fig. 7, Watteau, Pellegrinaggio all’isola di Citera, (particolare), 1718.19

 
Oppure con Gli Champs-Elysées [fig. 8] che ripropone per la statua femminile lo stesso languido abbandono del corpo osservabile in Giove e Antiope (o Ninfa e satiro come alcuni preferiscono intitolarla) [fig. 9], uno dei pochi esempi di ‘nudo’ vero e proprio realizzato dall’artista.
Watteau, Champs-Elysées, 1716.18 ca, olio su tela, cm 33 x 43, Londra, Wallace Collection
Fig. 8, Watteau, Champs-Elysées, 1716.18 ca, olio su tela, cm 33 x 43, Londra, Wallace Collection

Watteau,Giove e Antiope. 1715 ca, olio su tela, cm 73,5 x 107,5, Parigi, Louvre
Fig.9, Watteau,Giove e Antiope. 1715 ca, olio su tela, cm 73,5 x 107,5, Parigi, Louvre

Naturalmente, sia la pittura di Watteau, sia lo spazio concesso al femminile in tale pittura, sono a pieno titolo figli del Rococò, genere all’insegna del femminile: “Le règne des salon, c’est le règne des femmes. Les femmes assurent le bon fonctionnement de la conversation. Elle lui donnent ce ton de légèreté, de mouvement aisé, de badinage, qui proscrit le pédantisme et la querelle. Elles sont les gardiennes et les garantes de la sociabilitè» (Philippe Minguet, 1979). E il mite Watteau ne è uno dei più affascinanti interpreti perché il suo è un mondo pittorico propriamente al femminile.
Senonché a un certo punto, anche lui, il cantore più puro, sembra cedere a una tentazione e uscire dallo stato di composta esitazione. Naturalmente lo fa senza increspare troppo la superficie, forse, come suggerisce Kenneth Clark, a causa dal fatto che “Come probabilmente dimostrano le statue dei suoi parchi, così poco fredde, solo quando un corpo era presuntuosamente di pietra egli riusciva a contenere il proprio turbamento”, oppure perché nella sua arte l’erotismo non può prorompere prepotente, ma solo manifestarsi con garbo ed educazione, anche se in modo strategicamente ingannevole: “Com’è stupido il mondo! Era bastato dipingerle un po’ biancastre, quelle bombe di sesso, e il mondo aveva pensato che una scultura è morta” (Flavio Caroli, 2011).
Sia come sia, di fatto raggiungerà il risultato inverando le coppie oppositive ‘nudo/vestito’ e  ‘animato/inanimato’, cioè ricorrendo a quanto può essere fonte di smarrimento per la mente umana: l’inanimato nel vivente e il vivo nel morto. Ovvero mettendo in scena figure innocue sul piano della riconoscibilità: ninfe, divinità, creature silvane, che non nascondono la loro alterità a partire da sostanza (pietra), collocazione (piedestallo, fontana, ecc.) e nudità pagana; ma che, in definitiva, grazie a una riuscita ‘dissimulazione onesta’ racchiudono a un livello meno esplicito e più profondo un’idea personale indicibile. Un effetto perturbante quello della pulsione sessuale così connotata (già segnalato dalla scelta del bianco, il quale è certamente il colore della statuaria classica secondo le concezioni dell’epoca, ma pure segno del non detto, del non espresso, del vuoto), al quale un certo tipo di sensibilità non può porre evidentemente rimedio se non in extremis e col fuoco.


Se Watteau avesse potuto conoscere le riflessioni illuministiche sull’arte, forse, chissà, avrebbe potuto trovare avallo filosofico e consolazione esistenziale e, forse, plausibile spiegazione a una parte significativa di ciò che aveva dipinto nell’ultimo lustro della sua breve carriera. Di certo avrebbe trovato il nesso sottile che lo legava al teatro, e soprattutto alla statuaria di soggetto femminile, così tanto suggestivamente presente nelle sue fêtes galantes testardamente ambientate in una natura scenografica e accogliente, e perciò complice dei sensi e di tutti i presenti (incluse le statue e noi, gli spettatori all’esterno dell’opera).
Più tardi sarà un altro Antonio, il Canova, – stando all’aneddotica in stato di grande sovreccitazione durante la visita al Belvedere di Roma nel 1779 – a esclamare di fronte agli originali greci: “questa è vera carne”. Ma per Watteau, pittore già scivolato nel dimenticatoio, sarà troppo tardi.
 
 

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