Pierino non conobbe Leonardo, che morì 19 anni prima della sua nascita, ma l’eco delle opere dello zio gli giunse. Ora ricordiamo – con l’ausilio di Giorgio Vasari – il geniale autore di fontane per i giardini fiorentini e i suoi legami con Niccolò Pericoli detto il Tribolo.
di Costanzo Gatta
Quando Pierino da Vinci tredicenne, fra il 1542 e il 1543, passò la soglia della bottega del Tribolo, trovò il maestro affaccendato. Saltava da un incarico all’altro, aveva da disegnare il giardino della villa di Castello, stava realizzando in arenaria grigia il Dio del fiume per la vicina villa di messer Cristofano Ranieri. I muratori attendevano, cazzuola alla mano, gli ordini per la scala in San Lorenzo e i piastrellisti stavano posando mattonelle in altro palazzo. Quanti più ragazzi svegli arrivavano in bottega tanti più messer Tribolo ne metteva alla prova. E se avevano gambe, li faceva trottare nel suo e loro interesse. A villa di Castello, poi, i lavori erano tali da far “tremar le vene e i polsi”, per dirla con Dante. Fin dal 1477 i Medici – ramo dei Popolani – avevano comprato terreni e cascine accanto alla casa padronale e tenevano un giardino segreto, come voleva la moda, con piante rare. Cosimo (1519-1574) voleva trasformare la villa dove giocò da ragazzino e prima di lui suo padre, il mitico Giovanni dalle Bande Nere (1498-1526).
Cosimo, diventato primo granduca di Toscana con l’aiuto di Carlo V, dopo il ritorno in Firenze del 1531 aveva preso a realizzare il progetto. Si attendeva grandi cose dal Tribolo, che era arrivato in villa con la sua corte. Quanto a Pierino, mastro Niccolò lo aveva messo alla prova quasi per gioco. Dovendo fare un acquaio in pietra per casa di Cristofano Rinieri “dette a Piero un pezzetto di marmo, del quale egli facesse un fanciullo per quell’acquaio, che gettasse acqua dal membro virile”. Nella scelta c’è tutto l’humour toscano. Mi figuro la domanda di Pierino: “Messer Tribolo, da dove deve buttare acqua il putto?” “Dal bischero…” penso sia stata la risposta. Stupefacente fu il risultato, nel racconto di Giorgio Vasari: “Piero preso il marmo con molta allegrezza e fatto prima un modelletto di terra, condusse poi con tanta grazia il lavoro che ‘l Tribolo e gli altri feciono coniettura che egli riuscirebbe di quegli che si trovano rari nell’arte sua”. Ebbe poi ad eseguire altre opere eccellenti – sempre parole del Vasari – fra cui “un fanciullo che stringe un pesce che getta acqua per bocca” e ancora da “un pezzo di marmo maggiore… due putti che s’abbracciano l’un l’altro, e stringendo pesci, gli fanno schizzare acqua per bocca. Furono questi putti sì graziosi nelle teste e nella persona e con sì bella maniera condotti di gambe, di braccia e di capelli, che già si potette vedere che egli arebbe condotto ogni difficile lavoro a perfezione”. Se l’ispirazione era di Pierino da Vinci, alle spalle c’era un grande regista quale l’umanista Benedetto Varchi (1503-1565). Il letterato spiegò al Tribolo che, ogni statua o fontana avrebbe dovuto avere significati simbolici e celebrare la famiglia Medici capace di trasformare la Toscana in giardino ricco di acque, grazie all’uso intelligente delle risorse naturali. Varchi si figurò a monte una grande statua raffigurante l’Appennino. Da lì l’acqua defluendo a cascata e di fontana in fontana, fino al piano sarebbe stata raccolta da due ultime vasche con basamenti scolpiti dal Tribolo e da Pierino da Vinci.
Avrebbe coronato la prima il gruppo bronzeo di Ercole e Anteo di Bartolomeo Ammannati (1511-1592). La seconda avrebbe avuto come trionfo una Venere-Fiorenza del Giambologna (1529-1608). Sono le opere che si ammirano oggi nella villa di Petraia. Fino a quando il Tribolo non chiuse gli occhi – i lavori proseguirono poi con Giorgio Vasari e Davide Fortini e presero diverse direzioni – affidò a Pierino altre fontane. Il ragazzetto, che ormai in Firenze chiamavano il Vinci, avendo tutti conosciuto “insieme il parentado e il sangue” con Leonardo, si prese a cura prima il fuso della fonte del labirinto e poi una tazza di fontana. Pierino decorò l’orlo del grande recipiente con quattro putti scherzosi che muovendo gambe e braccia giocano e sguazzano nell’acqua. Li plasmò nella creta e lasciò a Zanobi Lastricati il compito di “gettarli in bronzo”. Anche partendo da incarichi modesti il nostro seppe fare opere d’arte. Avendo Niccolò Tribolo “preso l’ufficio del capomaestro delle fogne della città di Firenze”- come scrive il Vasari – e occorrendo “che la fogna della piazza vecchia di Santa Maria Novella s’alzasse da terra”, tutta la bottega dello scultore fu mobilitata per l’incarico. Bisognava che la fogna fosse ben capace e “potesse ricevere tutte le acque che da diverse parti le concorrono”. E così, a Pierino da Vinci, nemmeno ventenne, toccò il compito di modellare un “mascherone di tre braccia il quale, aprendo la bocca inghiottisse l’acque piovane”. Altro che “Chiare, fresche et dolci acque”, cantate duecento anni prima da quell’altro toscanaccio che era il Petrarca, sognando le onde della Sorga, affluente del Rodano, che lambivano madonna Laura. In Firenze Pierino se la vide con acque nere. Seppe sbrigarsela alla svelta e lasciare un segno. Finì il mascherone “in un sasso di pietra forte, e l’opera è tale, che con utilità non piccola della città tutta quella piazza adorna”. Altre fontane vennero poi dallo scalpello di Pierino per i magici giardini toscani nei quali lo scultore fece i primi passi. Non lavorò a Boboli, disegnato dal Tribolo fra il 1549 e il 1550 per i Medici. Sicuramente lo sognò, come luogo di pace. “I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino / di mezzo maggio in un verde giardino”, aveva cantato Agnolo Poliziano.