Stilebrescia ha intervistato Luciano Anelli.
La mostra Pietro Bellotti e dintorni, a cura di Anna Orlando, evento collaterale alla XX edizione di Brixiantiquaria, si è caratterizzata per l’elevato numero di dipinti inediti di alta qualità provenienti dalla collezione Koelliker. Nell’occasione, lei, Luciano Anelli, ha realizzato un importante saggio critico. Può indicarci in sintesi i risultati degli studi intercorsi dall’uscita della sua monografia sull’artista (1996)?
Da documenti emersi di recente è possibile ricostruire alcuni aspetti della biografia che prima ci sfuggivano: oltre a notizie sulla famiglia, sono interessanti le scoperte sugli spostamenti di Bellotti a Milano e ad Alessandria, con un breve ritorno a Venezia, prima di trasferirsi definitivamente nel 1481 a Gargnano. Di rilievo risulta il documento relativo ai nomi di allievi che vivevano in casa sua: questa notizia smentisce l’isolamento e la malattia in cui si è sempre creduto avesse trascorso gli ultimi anni. Ho inoltre potuto mettere a fuoco il rapporto di Bellotti con l’ambiente culturale milanese, non solo con il duca Ucedo, governatore della città dal 1670 al 1674, ma anche con alcuni pittori, come il Sebastianone (artista profondamente realista, attivo a cavallo tra ’600 e ’700), che sottolineano la presenza di un nucleo realistico molto amato dai collezionisti dell’epoca. Ho anche voluto mettere in relazione l’opera di Bellotti con i romanzi picareschi, in auge sia presso il duca di Ucedo, sia presso la nobiltà spagnola. Vi sono vari aspetti della cultura milanese con cui il Nostro viene a confrontarsi, e a scontrarsi, modificando la sua pittura: il governo spagnolo è ideologicamente opposto a Venezia, dove egli ha lavorato fino a poco tempo prima; i gusti letterari sono diversi da quelli che vigevano nell’Accademia degli Incogniti di Loredano. Nella città lombarda, l’opera di Pietro ha una conversione in senso pauperistico: dalle vecchie della Laguna, con cascate di rughe e fazzoletti colorati, passa ai mendicanti per strada nel peculiare atto di porgere il cappello per l’elemosina, anticipando di cinquant’anni Ceruti (documentato a Brescia dopo il 1721). Ho scandagliato tutte le collezioni spagnolesche e di patriziato milanese del tempo per indagare quali dipinti di Bellotti, con poveri, pitocchi e malfattori, Ceruti dovesse aver visto prima di trasferirsi a Brescia (certo i bellissimi ovali già nella collezione Melzi d’Eril, acquistati da Koelliker). Quindi Bellotti influenza la pittura della Milano dell’epoca, ponendo le basi per i realisti e soprattutto per il Pitocchetto. Ribadisco perciò la mia idea, vecchia di vent’anni, che l’arte di Ceruti è il frutto della combinazione del realismo di Pietro, visto a Milano, e della pittura pauperistica di Cifrondi, trasferitosi a Brescia da Bergamo prima del 1720.
C’è qualche inedito scoperto recentemente che merita una segnalazione particolare?
L’opera più coinvolgente è per me la Scuola di ricamo del periodo veneziano (ante 1661), straordinario per la resa della pelle “umida” della bambina che, emozionata, sta appunto ricamando sotto lo sguardo affettuoso ma severo dell’anziana insegnante. Dipinto fondamentale in cui, per la prima volta, si palesa quanto stilisticamente Bellotti debba a Velázquez, che, nel 1650 e poi nel 1651, era stato nella città lagunare, ospite del marchese di Mancera, ambasciatore di Spagna presso la Serenissima e principale committente di Pietro. Un’altra opera interessante è Martina avvelenatrice e indovina. Il soggetto è riferito ad una maga e chiromante della Siria che nel 19 d.C. avvelenò Germanico, forse per ordine di Tiberio, il quale in questo modo garantiva la successione al figlio Druso (l’iscrizione sul cartiglio recita: “Martina io fui che assicurò l’imperio / col morir di Germanico a Tiberio). I segni cabalistici e legati alla sfera della divinazione indicano una consonanza di Bellotti con ambienti “segreti”: e forse non è casuale che Martinioni nel 1663 segnalasse una “Marianna Ebrea” allieva dell’artista.
Osservando i personaggi di Pietro, si può rimanere colpiti dalla peculiarità delle stoffe, assai ricche e fantasiose. Spesso questi particolari possono sottendere significati nascosti. Ha fatto ricerche in tal senso? Un aspetto su cui ho cercato di indagare, con l’aiuto di uno specialista, è il valore simbolico dei tessuti (in particolare quelli rigati) in relazione alla collocazione sociale dell’effigiato. Nel ’600, essi sono caratterizzanti delle figure marginali della società: il boia doveva indossare almeno un capo a righe, i condannati a morte e i carcerati in generale avevano la divisa a righe e sempre a righe era il costume dei paggi mori nelle corti del tempo.
Pietro Bellotti passa dal ritratto alla pittura di genere. Può farci degli esempi, limitati agli ultimi inediti scoperti?
Ceruti ed altri artisti non sono sempre realistici, nel senso che talvolta i loro effigiati risultano piuttosto figure mentali. Bellotti, invece, si pone la figura davanti, anche se la stessa progressivamente perde i connotati del ritratto per diventare un tipo: e la tipizzazione è preludio alla scena di genere. Per esempio, nelle varie versioni di Lachesi, ritratta per la prima volta nel 1658, si verifica ad un certo punto la scomparsa degli elementi che la caratterizzano come parca (fuso, cesta): e la Lachesi della collezione Koelliker, ridotta al semplice volto, è senza dubbio il ritratto tipizzato di una vecchia. Lo stesso si dica per Esculapio col serpente, noto solo dalla descrizione in un manoscritto inedito di Nicolini, riferita non all’ovale della Koelliker ma ad un quadro più grande, con tutti gli attributi del medico. Anche in questo caso, quindi, assistiamo al passaggio dal ritratto alla tipizzazione.
Pietro Bellotti, le tele del boia
I suoi modelli indossavano stoffe dei dannati. Le nuove scoperte compiute da Anelli rispetto a questo pittore che, trasferitosi a Milano, mutò registro, facendo degli accattoni il centro nodale del suo interesse e divenendo incunabolo dell’arte del Pitocchetto