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di Giuseppe Fusari
Si deve quasi a uno scherzo del destino l’incontro tra il cardinale Angelo Maria Querini e il giovane Pompeo Batoni. Il cardinale, trattenuto a Roma per motivi diplomatici (erano insorti problemi tra la Repubblica di Venezia, che aveva ritirato il proprio ambasciatore, e la Santa Sede) ospitava nel suo palazzo nei pressi della chiesa di San Marco – anche oggi conosciuto col nome di palazzo Venezia – il pittore, impegnato nella realizzazione della sua prima commissione pubblica, la pala per la chiesa di San Gregorio al Celio richiestagli dal conte Forte Gabrielli Valletta di Gubbio.
Nel corso dell’elaborazione della pala, Batoni si era improvvisamente trovato senza uno studio per dipingere; il principe Camillo Pamphili aveva infatti deciso di allontanarlo dalla propria dimora e il giovane artista era finito, per l’intermediazione di un collega, il romano Girolamo Odam, nel palazzo ove risiedeva il cardinale.
A lui Querini commissionava, un paio d’anni dopo, la prima tela bresciana: la Presentazione al Tempio, donata dal porporato alla chiesa di Santa Maria della Pace dei Filippini. L’opera, giunta a Brescia all’inizio del 1737, fu collocata sull’altare maggiore, suscitando giudizi molto positivi. L’artista mostrava di aver ben assimilato la lezione di Raffaello e di Correggio e offriva una veduta schiarita e serena della scena, dove le figure, nobili per la loro discendenza dai modelli classici e rinascimentali, vivono in un’aria di addolcita realtà che via via diventerà la sua cifra stilistica.
A questa prima tela ne seguiva, a pochi anni di distanza, un’altra, sempre per la stessa chiesa. Stavolta a commissionarla a Batoni non era più Querini, ma il marchese Pietro Emanuele Martinengo di Pianezza. Questi, insieme all’altare in marmo collocato nel transetto sinistro, donava anche il dipinto, raffigurante la Vergine con il Bambino e san Giovanni Nepomuceno.
La commissione risale al 1742, ma la tela arrivò a Brescia solo nel 1746. Immaginata in un interno nel quale dominano elementi architettonici classici, la scena usa tutti i toni ammorbiditi di una pittura ormai matura, nella quale ancora più forte si fa la presenza di Correggio e di Parmigianino. Sono questi gli anni cruciali dell’arte di Batoni; attorno alla metà del secolo egli giunge a quell’equilibrio che lo consacrerà come il maggior pittore romano del Settecento.
La sua fortuna, dovuta in moltissima parte alla sua abilità di ritrattista, si intreccia con l’ambizione dei viaggiatori del Grand Tour, che vedevano in lui l’artista più adatto per immortalarli. I ritratti batoniani, infatti, sono anche lo specchio di un’epoca e delle aspirazioni che gli uomini di quell’epoca sentivano di poter avere. Un periodo di insolito equilibrio tra enfasi accademica e severità classicista che Batoni seppe interpretare con naturalezza. Di lui scriveva Boni, il suo primo biografo, che “fu fatto pittore dalla natura”, come a dire che la sua arte apparentemente senza sforzo era la meglio deputata per parlare dello spirito nuovo dei tempi che, dall’Illuminismo al Neoclassicismo, avrebbero segnato tutto il XVIII secolo.
Di poco successiva è la prima tela realizzata per la Collegiata di Chiari, raffigurante l’Immacolata Concezione. Anche qui la lezione di Correggio e quella di Raffaello si incontrano in un insieme armonioso e fuso, che ha nella luce il mezzo attraverso il quale il pittore riesce a strutturare la propria composizione. Non si conosce per quale via la committenza abbia raggiunto Batoni, ma la presenza, nel 1750, del dipinto lascia intravedere l’eccellenza della commissione e l’aggiornamento in fatto di gusto dei maggiori clarensi.
Trent’anni passano tra questa tela e la seconda inviata dal pittore nella stessa località; sono trent’anni in cui l’attività di Batoni è sempre più frenetica e sempre meno dedita ai soggetti sacri. E la commissione per la seconda pala di Chiari si intreccia con quella, messa in atto forse già nel corso degli anni Quaranta, dall’abate pittore Giorgio Duranti il quale, per la nuova Parrocchiale di Palazzolo sull’Oglio, si era rivolto a Pompeo per un’Ultima Cena (che tuttavia a Palazzolo non arrivò mai, tanto che giaceva non finita nello studio dell’artista alla sua morte).
Diversa sorte, invece, doveva toccare alla pala per l’altare di San Giacomo, chiesta a Batoni nel 1763 dall’allora prevosto Pietro Faglia e consegnata solo nel 1780, dopo parecchie insistenze e l’intermediazione di Stefano Antonio Morcelli, bibliotecario di villa Albani. La tela raffigura la Vergine con il Bambino e i santi Girolamo, Giacomo maggiore e Filippo Neri ed è stata giudicata forse troppo severamente dalla critica, che l’ha ritenuta un’opera stanca, di maniera e un po’ disarticolata. Gli studiosi più recenti hanno rivisto tale giudizio, inserendo la pala nella produzione tarda del pittore, nella quale il dolce stile della maturità dà origine a forme più languide e allungate e allo stesso tempo acquisisce un gusto già incline alla grammatica del neoclassicismo.
Anche in questo dipinto dell’estrema attività dell’artista si notano i riferimenti alla pittura a lui cara di Raffaello e di Correggio e, insieme, una ripresa di moduli già utilizzati in altre opere, specie della maturità. Ma lontano dall’essere un semplice assemblaggio di cose già viste, esso appalesa la maestria di Batoni nel comporre “in grande”, raggiungendo l’armonia pure in costruzioni macchinose e molto articolate.
La lunga stagione di Pompeo a Brescia si chiude con questo lavoro, nel quale passato e presente della pittura cercano un precario, poetico equilibrio. Ancora due tele sono attribuite all’artista lucchese: una in città, nella chiesa di Santa Maria ed Elisabetta, e l’altra, solo iniziata da lui e compiuta da scolari, nella Parrocchiale di Trenzano. Opere di minor respiro, compromesse da vicende conservative non sempre ottimali, che tuttavia aggiungono qualche ulteriore bagliore all’eredità lasciata nel Bresciano dal pittore alla ricerca del naturale senso della bellezza.
UN VIAGGIO EUROPEO TRA LE OPERE DI POMPEO BATONI