Cresciuto con criteri didattici che hanno il sapore della pedagogia moderna – più dolcezze che punizioni – programmato con amore a divenire, in breve, un genio della pittura e comunque un uomo completo, consapevole dei propri talenti, Raffaello mosse i primi passi nella bottega paterna.
Si presume che Giovanni Santi, papà affettuoso e onnipresente – si dice che avesse persino evitato al figlio neonato l’esperienza traumatizzante del baliatico, a favore dell’allattamento al seno materno, protettivo e fonte di benigne effusioni – abbia coinvolto il bambino nella bottega, con lavori semplici che venivano, di norma, riservati ai garzoni, ma già inducendolo al severo esercizio del disegno, elemento basilare soprattutto per la solida pittura centro-italica. Certo, si trattava di prime esercitazioni. Ma non è difficile pensare che un padre così “presente”, non avesse portato il figlio con sé, come piccolo assistente, durante il lavoro di pittura. Giovanni era un buon intellettuale e un discreto pittore. Ma che avvenne quando passò a miglior vita? Erano già stati avviati dall’apprensivo genitore i contatti con la scuola straordinaria del Perugino, che in quegli anni appariva come uno dei grandi della pittura italiana?
Le argomentazioni portate da Francesco Federico Mancini tendono a correggere ciò che negli ultimi anni si è sostenuto rispetto al periodo della formazione del giovane artista: Perugino non solo avrebbe avuto – come pare ovvio, osservando le prime opere del ragazzo – un peso enorme nel percorso stilistico compiuto dall’adolescente di Urbino, ma la sua bottega sarebbe stata frequentata con assiduità da parte del giovanissimo talento marchigiano. L’influenza che Raffaello subì, osservando i dipinti dell’artista umbro, non fu pertanto originata esclusivamente dall’acquisizione di elementi linguistici, catturati per osmosi, in un percorso parallelo ma autonomo, quanto nel corso di una diretta pratica svolta tra i garzoni e gli aiuti dell’illustre caposcuola. Elemento cruciale per comprendere il bagaglio formativo dell’Urbinate è costituito dai frammenti della Pala di San Nicola di Tolentino, realizzata a Città di Castello. “Quando riceve questo incarico (10 dicembre 1500) – afferma Francesco Federico Mancini, autore del saggio centrale relativo alla mostra “Gli esordi di Raffaello tra Urbino, Città di Castello e Perugia” – Raffaello è appena diciassettenne. Nell’atto di allogazione, il suo nome compare accanto a quello di Evangelista di Pian di Meleto, seguace di Giovanni Santi, padre di Raffaello.
Se è facile ipotizzare che Raffaello abbia mosso i primi passi nella bottega paterna, più complesso è stabilire per quanto tempo, dopo la morte di Giovanni, il giovanissimo talento sia rimasto in contatto con la variegata realtà artistica “post-santiana”, rappresentata da maestri come Evangelista da Pian di Meleto, Timoteo Viti e Girolamo Genga, e fino a che punto il suo iniziale linguaggio figurativo abbia dialogato con quella realtà”. Mancini ridimensiona pertanto il ruolo svolto dalla bottega paterna nell’ambito formativo. “Certamente – scrive – qualcosa dal padre imparò: a pestar terre, a macinar colori, a legare setole e peli di tasso sui manici dei pennelli, e forse anche a ingessare le tavole e a preparare colle e mestiche. E certamente i primi esercizi di disegno li avrà ben fatti per dichiarare la propria vocazione; e Giovanni Santi glieli avrà corretti amorevolmente, anche se non proprio genialmente. Ma non credo proprio che il noviziato di un bambino di quell’età potesse andar molto oltre”. Quindi si suppone, in linea con la storia vasariana, che il giovane artista abbia frequentato la bottega del Perugino, nella quale egli avrebbe posto le basi per la propria struttura pittorica. “Mi sembra francamente difficile escludere dai frammenti della pala di San Nicola – afferma Mancini – riferimenti al Perugino”. “Ho già detto in altra occasione – prosegue lo studioso – che il Vannucci dovette aprire una bottega a Perugia, poco dopo il 1486, anno della sua iscrizione alla matricola dei pittori per il rione di porta San Pietro. E’ in quella bottega che mise a punto, io credo, due opere di grande impegno come la pala dei Decemviri e il polittico di San Pietro; ed è in quella bottega ‘sufficientemente ampia per lavorare contemporaneamente a più opere e per accogliere i numerosi collaboratori attivi al suo fianco’ (come afferma Marabottini, ndr) che il giovane Raffaello dovette forse perfezionare la sua iniziale educazione urbinate”.
E’ proprio alla luce di questo impegno diretto, come allievo della scuola del Perugino, che è possibile “spiegare la grande abilità disegnativa dimostrata dall’Urbinate negli studi preparatori per la pala di San Nicola da Tolentino; studi talmente sorprendenti per sicurezza e modernità d’impianto, da presupporre la frequentazione assidua e costante di un laboratorio come quello del Perugino, dove la pratica disegnativa era considerata di fondamentale importanza nello svolgimento del lavoro creativo”. “Continuamente implicato nel duplicare la grafica del maestro, impiegato assieme a una schiera di compagni di bottega, a preparare il lavoro del Vannucci, Raffaello – scriveva Marabottini – si immedesimò al punto che finì con l’esserne quasi totalmente plagiato. Checché se ne voglia dire oggi, alla luce della sua, strabiliante parabola futura, non aveva torto il Vasari, quando, di fronte alle prime prove di Raffaello, asseriva che se non fossero state firmate, a gran fatica qualcuno avrebbe potuto attribuirle ad altri che al Perugino medesimo”. La precocità del genio di Raffaello è dimostrata comunque dalla rapidità con la quale egli esce dalla condizione di praticante, per diventare magister, maestro, termine con il quale viene identificato nel momento in cui, pur diciassettenne, riceve l’incarico di realizzare la pala di San Nicola, accanto a Evangelista di Pian di Meleto, allievo del padre e, ora, suo collaboratore. Ma sulla linea di città di Castello -“punto strategico delle rotte che collegavano l’Umbria con le Marche (e con la Toscana)”- Raffaello si pone grazie a Luca Signorelli, come afferma Tom Henry in un altro saggio del catalogo pubblicato in occasione della mostra, il vero Signor pittorico del luogo, l’artista che aveva qui a lungo operato. E che l’Urbinate era stato chiamato a sostituire, giacché Luca era a Orvieto per i prestigiosi lavori a Monte Oliveto Maggiore. Si presume che sia stato proprio Signorelli ad aver fatto il nome del giovane marchigiano, raccomandandolo ai committenti della cittadina umbra, evidentemente preoccupati di aver perso un punto di riferimento pittorico così importante. Il rapporto del giovane Raffaello con Signorelli merita un approfondimento, giacché non si configura come un semplice contatto episodico. Tom Henry afferma infatti che i due disegni preparatori realizzati da Raffaello per giungere all’elaborazione pittorica dello stendardo della Confraternita della Santa Trinità sono realizzati a matita nera, secondo le modalità seguite normalmente da Luca Signorelli. Ciò farebbe pensare che il giovane pittore sia giunto ad accettare gli incarichi di Città di Castello, dopo aver frequentato Signorelli, dal quale ricevette altri consigli ed indirizzi. E poiché il giovane artista recepiva rapidamente ogni indicazione, si trovò a trasformare ogni cognizione in una pittura che già si rivelava d’alto profilo. (fbc)