Gentile da Fabriano – Basilica San Nicolò di Lecco
Lago di Lecco, martedì 18 aprile 2017
di Riccardo Magnani
Goethe: “Soltanto conoscendo il nostro passato impariamo a conoscere il nostro presente”.
In effetti, nonostante il mio percorso tra le pieghe di un passato non sempre rischiarato dalla luce della conoscenza risulti ai più distratti e superficiali spesso pionieristico, più mi addentro in una ricostruzione degli eventi intervenuti negli anni che hanno dato vita al Rinascimento e più la concatenazione di elementi che finora parevano avvolti da una fitta nebbia assumono i contorni di rilievo e valore culturale assoluti nel trascorso storico di questa straordinaria città che è Lecco.
Si è spesso parlato in questi ultimi tempi di candidare la città a capitale culturale e di sfruttare di conseguenza il potenziale che naturalmente essa offre, incastonata come una pietra preziosa tra lago e monti, per elevarne l’attrattiva turistica e di conseguenza convertire parte del tessuto industriale storico, ormai desueto e obsolescente, nel turismo, creando così una nuova frontiera economica che garantirebbe alle generazioni più giovani un rilancio delle proprie aspettative e prospettive di vita, ma il più delle volte questa rimane una intenzione a cui non seguono passi concreti di realizzazione.
Analizzando la storia di Lecco, gli studiosi locali tendono a dare enorme importanza alla figura cinquecentesca del “Medeghino” – un furfante di bassa lega – e ai dipinti di pessima fattura conservati presso le sale del Castello di Melegnano che ne raccontano le gesta; con una certa superficialità, si tende a dare per scontato che il passato della nostra città non avesse null’altro ruolo se non quello di borgo marginale dedito alla pesca e a tutte quelle attività collegate al lago e ai monti circostanti, oggetto di continue guerriglie e scontri per il controllo territoriale nei quali appunto, nel XVI secolo, il Medeghino si distingue.
Il mio personalissimo percorso di studio, ma di fatto quello del mondo intero, passa come dicevo per tutto quanto ha creato i presupposti del rilancio di arti e conoscenze che ha dato impulso all’umanità attraverso quello straordinario movimento chiamato Rinascimento, di cui l’Italia è stata culla primaria; in particolar modo, prima di approdare alla figura più eminente di tutto il movimento, ovvero Leonardo da Vinci, i miei compagni di viaggio involontari sono stati tra gli altri Pandolfo Sigismondo Malatesta, Pisanello, Benozzo Gozzoli, Palla Strozzi e il Foppa.
Non è un caso che li abbia citati, perché è attorno a questi personaggi che è maturata la straordinaria storia che oggi vi voglio raccontare.
Approfondendo la figura di Pandolfo Malatesta III, padre di quel Pandolfo Sigismondo Malatesta, Signore di Fano e Rimini alle cui spalle, in un dipinto di Piero della Francesca del 1451 (conservato presso il Tempio Malatestiano di Rimini) compare una rappresentazione dell’America del Nord dettagliatissima, mi imbatto nei giorni scorsi in uno studio di Dino Brivio, pubblicato dalla Banca Popolare di Lecco nel 1982.
Nei fatti, Brivio riscontra negli archivi della parrocchia di Acquate dei documenti che, intrecciati con un sapiente lavoro di ricerca documentale, legano la figura di Pandolfo Malatesta a Lecco in più tempi; a partire dal 1409, quando questi acquista il ponte Azzone Visconti e dal 1416 al 1419, anni in cui la città è assoggettata amministrativamente al Malatesta, unitamente alle città di Bergamo e Brescia; proprio dalle scritture contabili di questi tre anni sono ricostruibili nomi, luoghi e vicende legate al territorio, ai suoi abitanti e ai due castelli che, unitamente al ponte, rappresentavano i punti cardine del borgo fortificato, altrimenti spesso dimenticati.
A differenza di quel che si è soliti pensare, Malatesta III è un dotto Signore, amante del greco antico e delle arti, legato a personaggi di primissimo piano del panorama culturale dell’epoca, come Filelfo (che poi si legherà a Ludovico il Moro e alla corte Sforzesca) e a Gentile da Fabriano, un pittore importantissimo nel transito stilistico dal Gotico Internazionale al Rinascimento, tanto che pittori di primissimo piano, quali Pisanello, Benozzo Gozzoli e il Foppa, appunto, si ispireranno a lui, mutuandone iconografie e stili pittorici.
Lo stesso Palla Strozzi, all’epoca avversario di Cosimo de Medici nel controllo della città di Firenze, si affiderà a Gentile da Fabriano per la commissione di alcuni affreschi molto belli, alcuni dei quali esposti alla Galleria degli Uffizi di Firenze (come nel caso della Adorazione dei Magi).
Gentile da Fabriano è definito uno di quei pittori “itineranti”, cioè che prediligono spostarsi da un luogo all’altro per raccogliere diverse committenze e guadagnare così più che non confinando la propria attività in una singola bottega di città, e questo è il motivo per cui accompagna Pandolfo Malatesta nel suo percorso lombardo; è conseguente a questa collaborazione il fatto che al Broletto di Brescia è a lui attribuito un importantissimo ciclo di affreschi, oggi in grandissima parte perduti (qui sotto, ndr).
Proprio osservando gli sparuti resti di quanto Gentile da Fabriano affresca al Broletto bresciano, mi balza alla memoria l’assoluta somiglianza con gli antichi affreschi presenti in un’ala della Basilica di San Nicolò, quella più antica e riconducibile proprio al periodo in cui Malatesta divenne signore di Lecco, nella quale è conservato un Battistero.
Inizialmente, a attirare la mia attenzione è il ricordo di una veduta della chiesa che diverrà poi nel tempo la Basilica attuale, con in fronte ad essa una delle porte fortificate a lago, denominata dagli studiosi Porta di
Santo Stefano, che dalla prospettiva offerta nel dipinto possiamo pensare si trovasse dinanzi alla statua del Cermenati presente oggi nella omonima piazza.
Un approfondimento di analisi rende evidente lo stile di Gentile da Fabriano, per cui, particolare dopo particolare, una analisi sommaria degli affreschi evidenzia ricorrenze e analogie praticamente sovrapponibili, nonostante la scarsa illuminazione, l’uso di una fotocamera ordinaria e la mancanza di impalcature idonee a osservare i dipinti da più vicino.
Gli stessi occhi dalle enormi iridi azzurre, le stesse posizioni e fattezze delle mani affusolate della vergine, l’uso delle prospettive esasperate della panca, come ritroviamo a Palazzo dei Trinci a Foligno, le enormi aureole e la presenza di alcuni elementi geografici che caratterizzeranno poi in maniera importante gli affreschi di pittori quali i già citati Pisanello e Benozzo Gozzoli, ma allo stesso tempo, ad esempio, Giovanni da Verona, come si può notare dalle immagini che seguono.
Addirittura lo stesso volto corrucciato della Vergine nella deposizione di Cristo, osservabile alla Pinacoteca di Brera.
Approfondendo ulteriormente la figura di Gentile da Fabriano, emergono ulteriori elementi di conforto alla tesi avanzata, e al tempo stesso di particolare interesse, per quelle che sono le vicende storiche legate alla città.
Si dice che Vincenzo Foppa, uno dei massimi esponenti del Rinascimento Lombardo (pittore nato nel 1427, lo stesso anno in cui morirà Pandolfo Malatesta III) debba la sua formazione artistica proprio all’osservazione diretta dei dipinti che Gentile da Fabriano esegue al Broletto di Brescia, ovvero i dipinti che hanno dato il via a questo mio ritrovamento.
Tra le varie opere riconducibili al Foppa, vi sono quelle presenti nella chiesa di Sant’Eustorgio in Milano, dedicata a San Pietro Martire, un frate Domenicano nato a Lecco nel 1205 e ucciso con un colpo in testa in un vile agguato a Colorina Valtellinese, nel 1277; questa circostanza è ricordata da una targa esposta fuori dalla Basilica di San Nicolò.
Ebbene, nel ciclo di affreschi di Sant’Eustorgio, tra le figure dipinte da Foppa spiccano in maniera evidente una Vergine con Bambino, entrambi con le corna.
Qualcuno fa risalire questa caratteristica con cui il Foppa ritrae la Vergine all’eresia Catara, altri al Diavolo che se ne impossessa; a mio parere la causa va più ricercata nell’episodio in cui nel Vecchio Testamento si fa riferimento ai fasci i luce che adornano la testa di Mosè, come è evidenziato anche nel famosissimo Mosè di Michelangelo in Roma; la causa va in verità ricercata altrove, ma non è in questo momento importante ai fini della valutazione oggetto di questo scritto.
Resta invece di interesse certo il fatto che le vicende dei Domenicani si leghino in maniera molto stringente alle cronache relative ai Malatesta, ma al tempo stesso alla storia remota di Lecco, come del resto a quella ad esempio di Santa Maria delle Grazie, dove è presente il celebre dipinto di Leonardo l’Ultima Cena, che come ho già diverse volte avuto modo di ribadire, descrive con la sagoma degli apostoli l’inconfondibile sagoma del Resegone; oltre al Martire della Fede Pietro, infatti, troviamo a metà del XV secolo una figura preminente, di cui pochi sono a conoscenza, che risponde al nome di Tommaso da Lecco e a cui Papa Pio II concessi privilegi assoluti.
Quello che colpisce in relazione a tutto questo racconto è proprio il fatto che anche nel ciclo lecchese appare una vergine con le corna, a cui probabilmente il Foppa si ispirò osservando il ciclo di Gentile da Fabriano al Broletto di Brescia o forse proprio osservando questo ciclo di affreschi conservato presso la Basilica di San Nicolò in Lecco.
Come per le vicende legate a Leonardo da Vinci, di cui come è ormai noto mi faccio portatore da tempo, è evidente e palese che la storia di Lecco abbia avuto frequentazioni molto alte, legate sia al mondo politico e sia a quello artistico dell’epoca di primissimo piano, testimonianza del fatto che la città non era per nulla il borgo marginale con cui spesso viene raccontato, e come suggerisco da tempo questo spinge a indagare in maniera più profonda e con meno preconcetti verso un periodo.
Dal canto mio, non posso che rinnovare la mia disponibilità a farmi carico e promotore di tutto ciò, sperando che certe sterili polemiche del passato rimangano arginate nella testa dei loro propositori, mentre possa prevalere l’amore per il territorio e soprattutto per le generazioni a venire, nei riguardi dei quali abbiamo il dovere di garantire condizioni migliori di quelle esistenti.
Ringrazio la Curia lecchese, nella persona di Monsignor Cecchin, per avermi dato l’opportunità di fotografare e studiare le immagini affrescate in Basilica e spero che a seguito di questa mia analisi si vorrà procedere ora in un approfondimento di studio, a partire dalla possibilità di ritrarre i dipinti da una posizione più agevole e con una macchina fotografica adatta a rilevare tutti i particolari dipinti, in attesa di altro tipo di analisi che confermino gli elementi di carattere temporale, sostanziale e stilistico di questa prima analisi.
E’ auspicabile in tal senso anche una collaborazione con la città di Brescia, Foligno, e naturalmente Fabriano, Firenze per quanto concerne gli Uffizi e tutti quei poli museali in cui Gentile da Fabriano è conservato e studiato.
Riccardo Magnani. Ecco le tracce di Gentile da Fabriano a Lecco
Lo studioso ha analizzato parti di dipinti parietali della basilica di San Nicolò, riportandoli ai resti degli affreschi nel Broletto bresciano e al catalogo del grande pittore gotico, anche per quanto riguarda le ricorrenze nelle figure: "Gli stessi occhi dalle enormi iridi azzurre, le stesse posizioni e fattezze delle mani affusolate della vergine, l’uso delle prospettive esasperate della panca, come ritroviamo a Palazzo dei Trinci a Foligno, le enormi aureole e la presenza di alcuni elementi geografici che caratterizzeranno poi in maniera importante gli affreschi di pittori quali i già citati Pisanello e Benozzo Gozzoli, ma allo stesso tempo, ad esempio, Giovanni da Verona. Addirittura lo stesso volto corrucciato della Vergine nella deposizione di Cristo, osservabile alla Pinacoteca di Brera".