Sebastiano e Marco, zio e nipote, furono segnati da un analogo destino di genio e sregolatezza, tra stupri e omicidi, condanne a morte e forzosi esili
[M]arco Ricci (1676-1730), impareggiabile vedutista e paesaggista, è giustamente ritenuto un estroso innovatore dell’arte veneta, precursore di Canaletto – che ne interiorizzò la poetica con soluzioni inizialmente analoghe – e di Francesco Guardi, che arrivò addirittura a ricalcarne le immagini.
Ma la storia insegna che molto spesso al genio si accompagna la sregolatezza. A confermare che il binomio non costituisce un mero stereotipo, la boccaccesca biografia del pittore, la cui passionalità sfociò nel privato in comportamenti intemperanti e violenti. Un Dr Jekyll e Mr Hyde dell’arte, insomma.
Le fonti offrono un quadro piuttosto fosco del carattere di Marco, come attesta il ricordo del Temanza: “In sul bollor degli anni suoi era uomo rissoso e dato alla cattiva vita, né si vergognava di frammischiarsi nella taverna alla vile plebaglia”. E la sua carriera fu certamente segnata, nel bene e nel male, da questa personalità irascibile. Egli infatti “si chiamò offeso una notte, stando nella taverna, di certe parole dettele da un gondoliere, onde prese un boccale e lo spezzò sul capo a quell’infelice e lo uccise. Per lo che suo zio (il grande Sebastiano, ndr) lo mandò a Spalato in Dalmazia, e lo raccomandò ad un valente pittore paesista, sotto il quale apprese molto. Stette colà circa quattro anni e poi ritornò a Venezia avendo suo zio acquetata la giustizia”.
La cronaca dell’evento suscita invero non poche perplessità: in primis, il territorio dalmata rientrava sotto la giurisdizione della Repubblica veneta, e non era quindi il luogo ideale per sfuggire alle autorità della Serenissima; inoltre, non è riferito il nome del “valente paesista” che accolse Marco negli anni dell’esilio. Tuttavia, nonostante le imprecisioni e aporie, l’autenticità del fatto di cui ci informa il Temanza non è mai stata posta in discussione.
Del resto, buon sangue non mente: eccesso e sfrenatezza caratterizzarono anche la vita dello zio. Stando alla testimonianza di Camillo Segrestani, nel 1681 Sebastiano Ricci fu coinvolto in una vicenda romanzesca a tinte forti: conobbe e ingravidò una bellunese diciassettenne, tale Antonia Maria Venanzio e, per sottrarsi dall’impiccio, tentò di avvelenarla. Smascherato e incarcerato, uscì di prigione grazie ad una conoscenza influente, ma si vide comunque costretto a riparare a Bologna per sottrarsi alla giustizia veneta.
E qui avvenne un secondo scandalo. Tra i suoi amici emiliani vi era il collega Giovanni Francesco Peruzzini, della cui avvenente figlia Maddalena Sebastiano si innamorò. I due fuggirono a Torino, dove si spacciavano per una coppia sposata. Ma lì risiedeva un parente della donna, che fece imprigionare e condannare a morte il pittore. Solo grazie all’intervento del Duca di Parma la pena capitale fu commutata nel bando perpetuo dalla città sabauda.