di Anna Maria Perini
[S]e Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), esponente di spicco dell’Illuminismo, teorico del ritorno ad una innocenza primitiva, fondatore della pedagogia moderna (l’Emilio) avesse voluto rappresentare con un’icona la propria filosofia – nella forma di un’impresa araldica – non avrebbe dipinto altro che questo quadro. Ma, ironia della sorte, l’opera, che suggella con inconsapevolezza naive il pensiero del filosofo, sarebbe giunta un secolo e mezzo dopo, quando le sue teorie sulla bontà della natura sorgiva erano penetrate a tal punto nella società francese dell’epoca da divenire un’idea ampiamente condivisa.
Quel quadro sarebbe stato firmato da un suo omonimo, Henri Rousseau il Doganiere. Vediamolo: ecco un bimbo paffuto, che reca in grembo un mazzo di gioiosi fiori campestri e che tiene i fili di una marionetta, grottesca rappresentazione dello stesso pittore, ancora in balia dei suoi desideri infantili, dominato da quello che Giovanni Pascoli avrebbe definito il fanciullino.
Ma che diceva Rousseau filosofo e quali sono i punti di contatto tra tela e pensiero filosofico? Egli sosteneva cheil buon selvaggio agisce secondo il proprio istinto, un istinto che si armonizza naturalmente e necessariamente con la realtà: ed è in questa armonia che si trova rappresentata la giustezza della sue azioni, mentre la società favorirebbe il pensiero razionale che porta al freddo calcolo e al cinismo tipico delle civiltà moderne. In parte precursore del Romanticismo (specie laddove teorizza la voce del cuore, del sentimento, come guida che porta sempre al bene, senza possibilità di errore), avrebbe consentito non tanto a Rousseau il Doganiere di ottenere un piano filosofico su cui lavorare, ma agli artisti e ai critici di riconoscere che ciò che il daziere francese produceva era frutto di quella semplicità postulata dal grande pensatore.
La stessa formazione del pittore – autodidatta, di fatto antesignano del filone naive – rispecchia la pedagogia rousseauiana; egli infatti afferma che “la sola natura mi fu maestra, insieme ad alcuni consigli di Gérome e Clément” (due illustri artisti accademici del suo tempo). La prima fase pittorica è realmente, duramente primitiva, con ritratti e quadri di animali e ambienti naturali. Viene influenzato da due incontri particolari: Apollinaire e Jarry, l’autore bohémien di Ubu Re. Ma è quest’ultimo che riesce a dare al percorso artistico di Rousseau – proprio sulla linea filosofica rousseuiana, per intenderci – un carattere intellettuale, introducendolo nel mondo dei pittori e dei pensatori che lui poteva solo sognare; un semplice tra gli eruditi; un primitivo che viene in parte apprezzato e che in parte è oggetto, proprio a causa della sua ingenuità, di scherzi crudeli (alcuni dei quali ideati da Gauguin).
A questo punto, il novello Emilio inizia a sentire il peso negativo della società. Ma Jarry gli è complice ed amico: non è un adulto come gli altri, è un nano che vive in una stanza realizzata su misura: a misura di fanciullo. Egli comprende che il Doganiere segue naturalmente ciò che Jean-Jacques Rousseau aveva teorizzato nel Saggio sulle origini delle lingue, in base al qualeil giusto e il vero non appartengono alla civiltà razionale, ma alle istanze del primitivismo più atavico, fonte originaria di un armonico raccordo naturale con la realtà. E tutto ciò che vale per il linguaggio verbale può essere esteso anche ad altre forme d’espressione, come la pittura.
Il modo più indiretto e incisivo con il quale la pedagogia di Jean-Jacques si materializza nel corpus dei dipinti di Henri è un quadro esposto al Salon des Independentes del 1903 con il titolo Per festeggiare un bambino (olio su tela, 100×81 cm). E’ proprio un Emilio, quello che vediamo raffigurato in primo piano nell’opera, un bambinone paffuto che spunta dal prato-natura, con piedi radicati nel terreno, gambe sode come tronchi, fiori appena colti posati nel risvolto del camicione. Sguardo deciso e pensoso, addolcito da un contorno di riccioli biondi, in questo fiero “stato di natura” mostra la marionetta tenendola a dovuta distanza, rappresentando l’adulto, colui che dovrebbe evitargli cattive influenze, incoraggiarne l’innata curiosità e predisporlo ad una crescita spontanea.
Ma a quel punto i giochi sono già ribaltati: l’adulto si deve arrendere, alzare le braccia di fronte alla spontanea passionalità ed emotività che un bambino può esprimere. Il viso della marionetta, autoritratto del Doganiere, confermerebbe nel suo gesto la resa incondizionata del potere creativo e artistico del fanciullo che è rimasto in lui. Pur ignorandosi – per la diacronia dei secoli e per la mancanza, da parte del pittore, di una formazione umanistica -, i due Rousseau hanno toccato in campi diversi una tematica che poi fu fonte di ispirazione per molti altri artisti.
Picasso, grande ammiratore di Henri, offrì addirittura un pranzo principesco in suo onore a Parigi. Apollinaire, intervenuto alla festa, improvvisò per lui una poesia, mentre Rousseau, che suonava il violino per gli ospiti, si emozionò al punto di piangere, come, appunto, un buon selvaggio. Ed era qui, sull’originaria purezza dell’uomo, che le arti rifondarono il proprio linguaggio per affrontare il secolo nuovo.