Il “testamento spirituale” del critico acuto e graffiante, scomparso nel 2007, Un volume che denuncia le “mistificazioni” dell’arte contemporanea. E non si salva quasi nessuno
[“I]l bambino che vede il re nudo e ha il coraggio di scrivere quello che nessun altro scriverebbe”. Con queste parole Vittorio Sgarbi si riferiva a Sigfrido Bartolini, pittore e incisore, ma anche critico d’arte acuto e graffiante. Scomparso nel 2007, Bartolini ha lasciato una cospicua eredità di saggi e articoli che riverberano quella schiettezza di vero toscano e quel sostanziale anticonformismo che ne hanno fatto una delle voci più originali del panorama culturale italiano degli ultimi anni.
Nato a Pistoia nel 1932, Bartolini ha lungamente affiancato al lavoro creativo, che lo aveva condotto a dedicarsi con una certa predilezione all’incisione (alcune sue opere sono conservate al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e alla Biblioteca Vaticana), un’intensa attività intellettuale, svolta nel segno di una presa di posizione contro le leggi di un mercato che, a suo giudizio – più volte ribadito -, “strappa l’arte dalla vita, alimentando l’inganno”.
Il libro La grande impostura (192 pagine, 13 euro, casa editrice Polistampa), rappresenta un vero e proprio testamento spirituale di Bartolini. Il volume, come recita il sottotitolo Fasti e misfatti dell’arte moderna e contemporanea, raccoglie una lunga serie di scritti che ci consegnano la sua puntuale disanima e il suo grido d’allarme nei confronti della situazione attuale, dominata da quella che egli definiva “una vera e propria mafia culturale”.
Nell’opera sono contenute taglienti letture critiche rivolte in maniera trasversale anche a molti grandi protagonisti del panorama artistico del XX secolo. Dal “genietto bizzarro” Andy Warhol al “dolente-ebbro” Filippo de Pisis, dal “personaggio per eccellenza” Marcel Duchamp al “giornalista a colori” Renato Guttuso, e ancora Lorenzo Viani, Henry Moore, Paul Delvaux, Marc Chagall, Mino Maccari, Ottone Rosai, René Magritte, Amedeo Modigliani, Michelangelo Pistoletto. Senza alcuna remora, Bartolini ha saputo affidare alla sua prosa schietta e priva di fronzoli una visione lucida e decisamente disincantata.
Illuminante, a questo riguardo, è la censura tout-court rivolta alla Biennale veneziana del 1993.Nel testo, egli non risparmiava caustiche stroncature alla manifestazione, descritta come un insieme di “rottami di auto e di moto, reti e materassi, foto porno, vasi da conserva, resti di macchinari irriconoscibili, manichini slogati, stracci, plastica a non finire e residui edilizi”, nel quale, peraltro, “non è dato di trovare un segno, un filo di speranza, un’oasi di ristoro da qualsiasi parte si cerchi, ovunque ci si volga; sconosciuta la poesia, spento il sorriso, morta la pietà, assassinato il sogno”.
Aggiungeva, Bartolini, senza celare una rabbia sdegnosa: “Non c’è traccia d’arte in questa mostra, non ci sono poeti ma solo profeti di sventura avvenuta”. In un articolo dedicato invece all’edizione del 2001, scriveva: “Il tutto, per chi sa leggere tra le righe, ha il sapore acre della parata in maschera che nasconde la tragedia. Tramontato da tempo il gusto per la bellezza, e gia superato da tempo quello breve del repellente, è rimasta la noia. Tutto è stato consumato; resta solo la vanità a tenere in piedi la fiera”.
Palesemente avverso ad ogni sterile convenzione, pronto a inimicarsi colleghi e cortigiani pur di difendere i propri punti di vista, Bartolini fu sopra ogni altra cosa un intellettuale indipendente. Ecco allora che liquida il “fenomeno” Andy Warhol, affermando che “solo l’intelligenza e il gusto da modista che possedeva riuscirono a trasformare in un segno di modernità tutto ciò che non ha senso né stile ma solo il sapore eccitante del trasgressivo tenuto al guinzaglio”. A proposito di una mostra di Michelangelo Pistoletto, polemizza con un’affermazione di Germano Celant (“Noi non lavoriamo per gli spettatori, siamo noi stessi attori e spettatori, fabbricanti e consumatori”) obiettando: “Più che giusto, ma allora perchè allestire queste mostre che tra custodia, trasporto, messa in opera, assicurazione, stipendio al direttore e monografia trilingue comportano spese di centinaia di milioni? Alla faccia dell’Arte Povera”.
Nulla risparmia alla figura di Alberto Burri (altrove definito, insieme a Rauschenberg, “sublime nullità entrata a pagamento tra i santi di una società senza religione”) e alle schiere di critici che ne decretarono l’apoteosi, quando forse avrebbero fatto meglio – sostiene – a constatare al cospetto dei suoi sacchi o delle plastiche combuste “la morte dell’arte, la sostituzione del brutto al bello, del buio senza speranza alla luce”.
Emblematico, infine, sia a livello contenutistico che formale, è l’articolo del 1993 Come ti costruisco il genio, in cui l’autore, con il dente particolarmente avvelenato, ricostruisce i meccanismi con i quali secondo lui oggi si creano “fenomeni” artistici, attraverso una serie di combinazioni artificiali che ben poco hanno a che fare con il talento autentico, con la predisposizione manuale e poetica, con il lungo studio e la guida di un maestro, essendo piuttosto il frutto di quel sistema viziato dall’interesse economico e personale. Come annota Vittorio Feltri nella prefazione al volume, “gli scritti di Bartolini hanno certamente il pregio della nettezza. A volte della crudeltà. Ma non ce n’è altri che, come lui, abbia saputo strappare il velo alla ‘Grande Impostura’”.