Ecco la soluzione del quiz:
Cronaca nera. La zattera degli orrori
di Elena Panzera
[S]u poche tavole di legno sommerse dai flutti un gruppo di persone, stremate dalla fame e dalla fatica, si muove nell’oscurità. Uno spettacolo raccapricciante si presenta agli occhi dei marinai dell’Argus: lo scheletro di una zattera che trascina con sé morti viventi, assi putrefatte ricoperte di belve umane. Si possono percepire il gelo umido che penetra nelle ossa e l’odore acre della decomposizione.
Ma che cosa sarebbe rimasto nelle nostre menti del tragico naufragio della Medusa senza Géricault?
Il dipinto è così terribile, e sublime, da emozionare profondamente lo spettatore, fino al punto di frapporsi fra lo spettatore stesso ed il fatto reale, trasformandolo. La zattera della Medusa è insieme la riproduzione di un singolo momento e la concentrazione dell’intera storia in un’unica immagine: un’ascia sul fondo a destra allude sia al taglio della cima che legava il natante di fortuna alle scialuppe, sia agli episodi di violenza ed omicidio dei passeggeri; il vecchio sulla sinistra che regge il corpo del ragazzo morto richiama la figura dell’Ugolino dantesco e dei suoi figli, ed è un chiaro riferimento agli atti di cannibalismo avvenuti sulla zattera.
L’artista sembra mostrarci una tomba che galleggia. Ma al flebile richiamo della speranza i condannati risorgono e ritrovano un inaspettato vigore. Questa contrapposizione tra la forza edificante della vita, rappresentata dall’uomo di spalle, al vertice, che agita un panno confidando di essere visto, e quella degradante della morte, qui incarnata dal vento che gonfia la vela, spingendo la zattera lontano dalla salvezza, forma il nucleo concettuale e compositivo del quadro.
Presentata al Salon nel 1819, l’opera risultò ostica da comprendere per la violenza dell’immagine, che pure si avvale di una composizione classica, basata sulla regola della divisione in terzi della tela e dell’impatto visivo della sezione aurea. Ma proprio lo strumento sapiente della pittura classica dà energia al realismo romantico, con i cadaveri dei poveri naufraghi che si stagliano in primo piano. L’artista obbliga l’occhio, attraverso l’abile costruzione del quadro, a percepire istantaneamente la struttura vorticosa dell’insieme, per poi scendere nei particolari di verità.
Fedele alla sua vocazione di “cronista”, Géricault si basò per la Zattera su di una documentazione dettagliata. Aveva frequentato gli obitori e le sale di anatomia degli ospedali di Beaujon e Bicêtre, vicino al suo studio, raccogliendo membra umane da utilizzare quali modelli.
Fece posare per lui gli amici Théodore Lebrun, che un attacco d’ittero aveva reso pallido ed esangue, ed Eugène Delacroix, scelto per l’aspetto malaticcio conferitogli dalla pelle olivastra e dalla costituzione fragile. Inoltre si recò a Le Havre per studiare le imbarcazioni in mare, e chiese al carpentiere della Medusa, uno dei sopravvissuti, di fabbricargli un modellino della zattera, su cui posizionò gruppi di figure di cera esplorando tutte le opzioni strutturali possibili.
Per garantire l’autenticità del dipinto quale trasposizione visiva del fatto reale, Géricault si affidò direttamente ai protagonisti stessi, ed in particolare ad Alexandre Corréard, l’ingegnere-geografo scampato alla tragedia della zattera, sulla quale era voluto salire spontaneamente per non abbandonare i suoi operai. Fu proprio dai racconti allucinati di Corréard che il pittore trasse la potente ispirazione per il quadro.
Egli era rimasto talmente scosso dalla vicenda che si offrì di dare il proprio contributo realizzando quattro delle otto illustrazioni del libro di memorie di Corréard ed Henri Savigny, il chirurgo di bordo della Medusa. La loro causa diventò anche quella di Géricault, il quale ne sposò l’instancabile battaglia volta ad ottenere giustizia. I due sono rappresentati nel dipinto, a ribadirne ulteriormente la veridicità, all’ombra della vela, a sinistra del gruppo con la figura, già citata, che agita il drappo: Corréard è l’uomo che tende il braccio e Savigny gli sta accanto.
La zattera della Medusa fu completata nell’estate del 1819 ed esposta al Salon il
25 agosto. Dopo questo capolavoro, Théodore Géricault restò legato ai drammi della realtà contemporanea, e la sua indagine proseguì nell’analisi della sofferenza umana, della sconfitta, della tragedia. Tale interesse lo portò a prediligere temi dal gusto macabro, come le teste dei decapitati e le membra recise assemblate a formare improbabili nature morte, con i tagli sanguinanti brutalmente messi in mostra.
Le immagini delle teste ghigliottinate, con gli occhi rovesciati e i lineamenti deformati dall’orrore, fanno appello ancor oggi ai più elementari sentimenti umanitari di ciascuno di noi con una forza più grande di qualunque discorso sull’abolizione della pena capitale.
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