Coperta dalla coltre del tempo, l’esistenza del marchigiano Alberto Spadolini, danzatore, coreografo, attore, regista, cantante, scrittore e pittore, pareva destinata a restare un ricordo lontano, custodito da quei pochi intimi che, a trent’anni dalla morte, ancora posavano fiori freschi sulla sua tomba parigina.
Almeno fino al giorno in cui un suo nipote, Marco Travaglini, frugando nella polverosa soffitta della casa di Fermo, si è imbattuto in frammenti di giornale, fotografie, locandine, dipinti, spartiti, che riportavano alla luce lembi confusi della vita di uno degli artisti più eclettici del Novecento.
Documenti che citano personaggi illustri, da D’Annunzio a Picasso, da Renoir a Cocteau, e che forniscono un’infinita serie di aneddoti poi confluiti nella biografia Bolero-Spadò. Alberto Spadolini, una vita di tutti i colori, scritta dallo stesso Travaglini.
Spadolini nasce nel dicembre del 1907 ad Ancona. E’ ancora bambino quando apprende i primi rudimenti della pittura dal conterraneo Baldinelli. Negli anni ’20 si trasferisce a Roma, dove lavora come aiuto-scenografo al Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia. Frequenta De Chirico, Prampolini, Marinetti, Pirandello, fino agli inizi degli anni Trenta, quando, dopo la chiusura del teatro per volere di Mussolini, decide di lasciare l’Italia per Parigi.
Grazie alle lettere di presentazione di D’Annunzio, Alberto riesce ad ottenere il posto di coreografo nell’atelier di Paul Colin. E’ proprio qui che, impegnato ad allestire uno spettacolo, Spadolini, sporco di vernice e madido di sudore, improvvisa una danza sulle note della seconda rapsodia di Liszt che lascia basiti i musicisti e i tecnici presenti. I passi furiosi, selvaggi, quasi animaleschi, e il fisico da statua greca, rivelano un talento istintivo, primordiale; un lirismo coreico prepotente e spontaneo.
La sua ascesa è fulminea: balla al Casinò de Paris, al Metropolitan e allo Ziegfelds di New York; indimenticata resta la sua interpretazione del Bolero di Ravel. Gli ammiratori non si contano: estasiata dal suo fascino, Marlene Dietrich gli sussurra: “Spadolini, se fossi stata una ballerina è voi che avrei scelto come partner”; Paul Valéry lo definisce “mitologico, mitico e faunesco”; secondo Max Jacob, il marchigiano “concretizza la visione del poeta”.
Fervida e tempestosa è pure la sua vita amorosa: Catherine Hessling, modella di Pierre-Auguste Renoir e moglie del figlio di questi, il regista Jean, lascia il marito per fuggire con lui – una liason dangereuse che si concluderà quando i due decideranno di esibirsi insieme e Alberto mal tollererà gli applausi scroscianti tributati alla sua amante -; Dora Marr, storica compagna di Picasso, se ne invaghisce e gli chiede di posare seminudo per il suo obiettivo, provocando l’ira del gelosissimo Pablo, che le sottrae la macchina fotografica.
La relazione più passionale, impetuosa e travolgente è però quella tra Spadolini e Joséphine Baker: un amore prima cementato e poi distrutto dalla danza.
I due ballano insieme per qualche tempo. Il loro sodalizio sentimentale e professionale si interrompe bruscamente al termine di una performance al Prince Edward Theatre di Londra: il pubblico fischia Joséphine, mentre riserva ad Alberto un fragoroso battimani.
Il narcisismo della Venere nera non può tollerare tanto: è un amico del Nostro, Alex Wolfson, a rammentare la scenata della donna e la successiva reazione, tanto iperbolica da apparire esilarante, di Spadò: “Lui tornò a casa e si chiuse nel suo studio. Quando riuscii a entrare, la stanza era un campo di battaglia: dischi fracassati, libri strappati, portafotografie in frantumi… Riuscii a salvare solo un’immagine in cui Alberto e Joséphine danzano Hawaii al Casinò de Paris. Dopo aver sforbiciato la testa della Baker me la diede come souvenir”.
Non appena sulla sua carriera di ballerino cala il sipario, Spadolini si dedica alla passione primitiva, la pittura: i quadri che esegue, visioni oniriche intrise di cromie dense e cangianti, scaturiscono da ricordi autobiografici fondati, come sosteneva Jean Cocteau, sulla “trasmigrazione dell’anima nella danza”.“Spadò danza i suoi sogni. I suoi sogni di pittore”, commenta Max Jacob. La tela accoglie l’espressione di un animo romantico, di un universo esistenziale fatto di istintività e di poesia, ma anche di un personale e mai sopito conflitto tra l’uomo e l’artista, incarnato dalla frequente rappresentazione di una maschera.
Il lato più privato del Nostro può emergere solo quando egli raffigura la sua terra: le vedute marchigiane, dai colori caldi e rassicuranti, sono forse la nota più intima e malinconica, lontana anni luce dallo sfavillio effimero dei fasti parigini.