Il recupero del libro Asclepius portò filosofi-maghi del Rinascimento a caricare le immagini dei quadri o dei monumenti di quel soffio divino che Ermete Trismegisto indicava come elemento in grado di dare vita e azione alle effigi degli dei. Una funzione dell’arte che prescindeva la decorazione e i contenuti estetici
[S]ostenitore della magia simpatica, traduttore del Corpus hermeticum – la raccolta di scritti magici che si riteneva opera di Ermete Trismegisto e collegata al mondo egizio -, Marsilio Ficino fu produttore o consulente nell’elaborazione di talismani o di pitture che ponessero in campo le cosiddette imagines agentes, figure in grado di esercitare il loro influsso non soltanto nell’ambito della memoria – divenendo strumenti principali attorno ai quali tessere prodigiosamente il processo mnemonico – ma sulla vita stessa, poiché il filosofo-mago pensava, seguendo le indicazioni degli antichi trattati ermetici, di poter conferire una natura benignamente radiante a particolari oggetti, a simulacri, idoletti, statue o immagini che egli programmava nei dipinti.
E’ assai interessante notare quanto pittura e scultura, all’epoca di Ficino, il pensatore del Dio buono, presente in ogni realtà del mondo e nell’uomo, come elemento di congiunzione tra il divino e il sub-lunare, divenissero, soprattutto nell’ambito della cerchia fiorentina e, successivamente, anche nell’area germanica, grazie alle opere di Enrico Cornelio Agrippa – che tanta influenza ebbe su Dürer -, cuori pulsanti di azioni magiche, che già erano in parte insite nelle vocazioni taumaturgiche dei personaggi raffigurati, ma che potevano essere oggetto di un potenziamento rituale delle funzioni stesse mediante il ricorso a formule egizie.
A noi risulta sorprendente pensare che un quadro o una statua assumessero valenze che si collocassero ben al di là di una mero compito estetico e decorativo. E se fossimo pure disposti ad accettare che essi potessero favorire processi mnemonici – del resto, la memoria smisurata di Pico della Mirandola o di Giordano Bruno s’incardinava proprio all’anello delle immagini, buona parte delle quali legate alla mitologia o alle costellazioni, a cui venivano ormeggiati concetti o frasi complesse -, risulta più difficile capire un’azione estroflessa dell’opera d’arte, cioè una sua capacità di interferire e modificare il reale, non soltanto allontanando gli influssi negativi, ma propiziando quelli positivi.
A fronte della mancanza di immagini considerate neutre, è allora comprensibile l’interesse particolarmente vivo dei committenti, dei pianificatori e dei pittori nella scelta dei soggetti iconografici, che passava anche attraverso una selezione della funzione che le stesse immagini erano in grado di suscitare nell’ambito della propiziazione della fortuna. E ciò, per quanto possa apparire molto lontano dal nostro modo di intendere il “ruolo” di una statua o di un quadro, non si discosta poi in misura sensibile dalla concezione sacra delle icone religiose, alle quali guardiamo ancora con intensità, rivolgendo ad esse le nostre preghiere e considerandole pure capaci di proteggere la casa e noi stessi dagli influssi maligni.
Il sincretismo rinascimentale – legato alla filosofia d’emanazione del ficinismo, che finiva per assumere caratteristiche vicine a una visione panteistica del mondo – portava ad un’estensione alla materia del concetto del sacro. Per quanto la Chiesa si fosse battuta contro l’uso di queste immagini, per timore che esse fossero suscitate dai demones e comunque da forze non appartenenti all’orizzonte cristiano, Ficino aveva tentato di individuare un punto di fusione tra gli insegnamenti provenienti dal lontano Egitto, ma in realtà elaborati in Grecia in età ellenistica, e il Vangelo. A ciò aveva inizialmente contribuito la figura stessa di Ermete Trismegisto, che era stato, pur con qualche dubbio, annoverato tra i profeti che orientavano i propri vaticini in direzione di Cristo.
Ermete, infatti, aveva previsto la decadenza della religione egiziana, seguita dall’avvento del figlio di Dio; e questa affermazione, nella seconda metà del Quattrocento, nonostante le antiche resistenze di sant’Agostino, gli aveva permesso d’essere effigiato, tra l’altro, sul pavimento del Duomo di Siena, in una ben nota immagine che apparirebbe incongrua nell’ambito della cornice ecclesiale, ma che in realtà, in quegli anni, risultava dotata di una forte pertinenza semantica. La presunta azione profetica svolta dal misterioso personaggio aveva consentito una rivalutazione degli scritti ermetici dello stesso, i quali, per un certo periodo, non furono oggetto di censura da parte della Chiesa. E poiché Ermete aveva esaminato la funzione magico-religiosa delle immagini, ne era disceso un notevole interesse verso la proiezione di un’anima agente sui dipinti e le sculture.
In virtù della capacità di ogni imago di agire sull’anima – capacità peraltro confermata in chiave scientifica dagli studi psicanalitici – ma pure sul destino umano, le elaborazioni artistiche tennero conto in modo crescente non solo del contenuto simbolico dell’opera, ma della sua idoneità ad essere causa efficiente, ad agire cioè sul mondo propiziando prosperità (attraverso la figura della Fortuna o della Cornucopia), amore (Venere o Cupido), ricchezza (è il caso delle rappresentazioni delle Danae), aiutando persino a tenere lontani i nemici (Marte, Ercole, gli Argonauti, ecc.). Un comportamento che, come possiamo notare, non si differenziava da quello delle miracolose icone della devozione cristiana, a cui venivano ampiamente riconosciute virtù taumaturgiche.
Ai quadri e alle sculture d’ambito ermetico era in sostanza richiesta un’azione di completamento rispetto alla protezione assicurata dai santi e da Cristo stesso, senza che – nella visione di Ficino o, in seguito, di Cornelio Agrippa – si sviluppasse un contrasto od emergessero elementi di incompatibilità (i quali peraltro furono presto individuati dalla Chiesa ed assunti da Giordano Bruno, che avrebbe rinunciato, di fatto, alla religione romana per abbracciare la teologia egizia) con il dettato cristiano.
“Pico – scrive Frances A. Yates in Giordano Bruno e la tradizione ermetica – si muoveva nello stesso mondo d’immagini di Ficino, come dimostra il suo commento alla Canzona de amore di Benivieni, e le tre Grazie incise sulla sua medaglia potrebbero venire forse intese, in fondo, come un’immagine talismanica contro gli influssi di Saturno”.
Bisogna ricordare che Saturno, sovrano della Melanconia, era ritenuto causa prima dello stato di prostrazione, di distacco, di tristezza che, secondo Aristotele, risulta più acuto in coloro che si distinguono per doti artistiche ed intellettuali. Per compensare gli influssi negativi di tale fredda divinità e del pianeta ad essa collegato, queste categorie si affidavano per l’appunto all’effigie delle tre Grazie: esse, infatti, rappresentano Venere, il Sole e Giove, i quali – continua la Yates – hanno “poteri salutiferi, vivificanti, antisaturniani”.
Lo stesso quadrato gioviale (che contiene cioè i numeri di Giove) nella Melancholia I di Dürer, accanto a campanelli che possono spezzare il silenzio inquietante dell’abbattimento melanconico – in grado di produrre aborti, animali deformi, figure geometriche eccentriche, oltre che di affliggere fino all’inanità l’anima di chi ne risulta colpito -, nasce proprio come immagine talismanica compensativa.
Ficino, per sfuggire alla presa malinconica, aveva deciso di utilizzare i colori e le forme delle tre Grazie, facendole effigiare sul soffitto della sua camera da letto. La Yates ipotizza infatti la presenza, nella casa del filosofo, di “un affresco che è sempre la figura del mondo, probabilmente con le tre Grazie, il Sole, Giove e Venere, in posizione preminente, e con i loro colori
– blu, oro e verde – predominanti sugli altri”.
Devono essere quindi in parte riconsiderati i motivi della ricorrenza delle tre donne nei dipinti dell’epoca: non solo tributo alle scoperte antiquarie, non solo elegante gioco decorativo di giovani corpi, non solo allegoria della generosità di colei che prende, di colei che dà e di colei che restituisce. L’azione delle tre Grazie assumeva una connotazione magica, con funzioni solari.
Le immagini pittoriche o scultoree – che di per sé erano considerate in grado di effondere benignità – potevano essere oggetto di un potenziamento rituale delle proprie capacità irradianti. Fondamentale, in questo campo, risultò il recupero dell’Asclepius, che forniva gli elementi teorici e pratici per far giungere al simulacro il fiato divino. Leggiamo, in proposito, i passi cruciali dell’opera. “‘Come il Signore e Padre o, per designazione più alta, Dio, è il creatore degli dei celesti, così l’uomo è l’artefice degli dei che si trovano nei templi e si compiacciono della vicinanza degli uomini, e non solo è illuminato, ma illumina anche. Non solo progredisce verso Dio, ma produce anche degli dei. Rimani ammirato, Asclepio, o forse anche tu manchi di fede come la maggior parte delle persone?’. ‘Rimango confuso, Trismegisto, ma do volentieri l’assenso alle tue parole, e considero sommamente beato l’uomo che abbia conseguito una felicità così grande’.
‘E non senza ragione è degno di essere ammirato colui che è il più grande di tutti gli esseri. Tutti ammettono che il genere degli dei è avidamente derivato dalla parte più pura della natura, e che i loro segni visibili sono soltanto, per così dire, delle teste in luogo degli interi corpi. Ma le immagini degli dei che gli uomini forgiano sono formate da entrambe le nature: quella divina, che è più pura e molto più divina appunto, e quella che è al di qua dell’uomo, ossia la materia, da cui le suddette immagini sono state fabbricate. E non sono rappresentate con le sole teste, ma con tutte le membra e con l’intero corpo. Così l’umanità, sempre memore della propria natura e della propria origine, persevera nella suddetta imitazione della divinità, sicché come il Padre e Signore ha fatto gli dei eterni, perché fossero simili a lui, così l’umanità raffigura i propri dei a somiglianza del proprio volto’.
‘Intendi dire le statue, Trismegisto?’. ‘Sì, Asclepio. Vedi quanto tu stesso sei diffidente? Sono statue animate, piene di intelletto e di soffio vitale che compiono tante e tali opere! Sono statue che conoscono in anticipo il futuro e che lo predicono con le sorti, con i profeti ispirati da loro, con i sogni e in molti altri modi; che causano malattie agli uomini e che le curano anche; e che procurano dolore e gioia secondo i meriti’.
‘Qual è la natura degli dei che chiamiamo terrestri, o Trismegisto?’. ‘Essa deriva, Asclepio, da una mistura di erbe, pietre e aromi che contengono una virtù occulta di efficacia divina. Affinché l’idolo possa felicemente sopportare il suo soggiorno tra gli uomini, si cerca di rallegrarlo con numerosi sacrifici, inni e canti di lode, che rievocano l’armonia celeste, dato che nell’idolo gli uomini hanno introdotto proprio questa natura celeste. Ecco come l’uomo fabbrica gli dei’”.
Canti, sacrifici, uso di erbe e di pietre ai quali lo stesso Ficino non si sottraeva. Un’azione simile a quella della benedizione di una statua da parte del sacerdote cristiano. Con aspersioni, incenso e preghiere. (bernardelli curuz)