di Enrico Giustacchini
[I]l 15 dicembre 1760, Francesco Maria Tassi scrive al bergamasco conte Carrara una lettera da Venezia. Se il conte è desideroso di sapere che cosa combini Giambattista Tiepolo, il principe dei pittori, eccolo accontentato. Tiepolo, rivela l’informatissimo Francesco Maria, “ora sta facendo alcune mezze figure di donne a capriccio per l’imperatrice di Moscovia, che non si possono vedere cose più belle, più vive e più finite”.
Gli studiosi concordano nel ritenere che una di tali “mezze figure” sia il quadro qui proposto, che Filippo Pedrocco considera tra i capolavori dell’artista nell’ambito del ritratto di fantasia. Tiepolo rende omaggio ai maestri del Cinquecento, a partire dal Veronese, in quella spalla liberatasi in fretta dalla cappa greve dei broccati, nel giocoso appalesarsi di quel seno pulsante, in quello sguardo assorto e furbetto insieme, in quel viso che – nella sua cornice di perle e di rose – non sapremmo dire se di brava ragazza o di cortigiana.
Giambattista campisce la tela del verde più sontuoso di cui è capace, pervade le gote della giovane del più tiepolesco tra i vermigli, inonda di luce bianchissima la poppa offerta senza pudori agli occhi del mondo. Del mondo e del pappagallo: il quale – blandito dalle carezze della padroncina, le penne arruffate – punta il becco robusto, inesorabilmente, verso il bocciuolo del capezzolo.
Ma chi è davvero questa bestia bizzarra? Un frutto vanicolore dei paradisi tropicali o il simbolo per eccellenza della lussuria, il latore di lascive tentazioni per conto di Belzebù?
A Elisabetta Petrovna, zarina di tutte le Russie e committente del dipinto, l’ardua risposta, se e quando crederà di doverla dare. Che intanto Vostra Maestà si goda il suo pappagallo d’artista – e che artista! -, pur nell’inverno senza fine di San Pietroburgo.