di Enrico Giustacchini
[Q]uanta tristezza, o Vergine, in quei tuoi meravigliosi occhi a mandorla. Occhi a mandorla che hanno costituito uno dei grandi miti del Gotico. Un’invenzione stilistica, un codice preciso (ma l’Oriente non c’entra). Nelle donne protagoniste dei dipinti dell’epoca, come ricorda Francesca Pellegrino, “l’occhio lungo è un elemento di fascino ed eleganza suadente. E lo sguardo femminile nella cultura cortese era fondamentale veicolo d’Amore”.
Amore profano, ma anche – è il caso dell’opera che qui mostriamo – sacro Amore materno. Maria fissa con struggente tenerezza, attraverso le palpebre strette quali stille di pioggia, le tonde pupille del suo bambino. Le gote dei due si toccano. L’abbraccio è morbido, avvolgente e disperato.
Perché questa madre sa il destino del figlio. E sa che il figlio pure – sebbene tanto piccolo – ne è a conoscenza: nella mano sinistra egli serra infatti l’ala di un cardellino, uccello dal capo e dal petto rossi come sangue, fragile e terribile presagio di una Passione annunciata. Una lancia, e spine intrecciate a corona, insanguineranno in un giorno non lontano petto e capo del bimbo di oggi.
Un brivido trascorre così la tavola dipinta da Ambrogio Lorenzetti, maestro senese, attorno al 1340. Il brivido si insinua, lieve ed acuminato, sotto la pelle della donna e dell’infante, sotto l’ordito delle vesti, sotto le piume della bestiola. Persino l’oro che riscintilla sullo sfondo ne è scosso da silenti vibrazioni angosciose.
La mano destra di Gesù è comparsa dietro il collo di Maria. I ditini, minuscole punte di stella, si aggrappano al velo del colore della notte. E lei, la madre di Dio, smarritamente consapevole, guarda più in là, per le fessure dei suoi meravigliosi occhi a mandorla: guarda, guarda, guarda e le sembra di non vedere altro che il nulla.