All’asta, il 15 di novembre 2017, da Christie’s, a New York, Il Salvator mundi, opera attribuita a Leonardo da Vinci, è stato venduto per 450 milioni di dollari. Sarebbe l’ultimo dipinto del maestro appartenente a una collezione privata, quella del miliardario russo Dmitry Rybolovlev, che la acquistò, attraverso la transazione compiuta da una nota casa d’aste internazionale, per 75 milioni di dollari. L’opera è splendida, ma è davvero totalmente autografa o certi elementi, come il volto del Cristo, lasciano pensare a interventi di Boltraffio? Oggi, per dipinti di grande pregio, il concetto di autografia assoluta perde significato, in quanto le botteghe rinascimentali non erano come gli studi dei pittori di derivazione romantica e post-romantica. I pittori si avvalevano di collaboratori – anche se Leonardo era molto geloso della propria solitudine, nei momenti creativi – ed è pertanto normale che i contributi diversi, per quanto armonizzati dal maestro, possano emergere. Proprio per questo, la nuova storiografia tende a valorizzare l’idea del lavoro di gruppo, assimilando il lavoro di un pittore a quello di un regista cinematografico. Pertanto i lavori più importanti che si svolgevano in essa potevano contare su più apporti ma, come avviene per i film, la paternità è quella di chi concepisce l’operazione, la guida, contribuisce a farla portare a compimento. Il collezionista era stato stato comunque convinto, durante l’acquisto, da una serie di elementi e di prove scientifiche che dimostrano che il milieu è quello di Leonardo.
Il Salvator Mundi – Salvatore del mondo – è un olio su tavola, (66×46 cm) attribuito a Leonardo da Vinci, databile al 1499. Con il passare dei secoli, restauri e rifacimenti avevano totalmente mutato il dipinto come possiamo vedere in questa fotografia del 1912, scattata poco prima del restauro. Ma nel corso del lavoro non vennero totalmente rimosse le ridipinture pesanti, comprensibili se non nell’ambito di un intervento di “modernizzazione” dell’opera, posta più in linea con il gusto, la moda e il pensiero teologico del tempo in cui il dipinto fu mutato.
Forse l’intervento – evidentemente realizzato durante il Seicento – per l’aggiunta di baffi alla “gatto” e per la mascolinizzazione della capigliatura, puntava a rendere meno etereo il personaggio leonardesco, fornendogli una connotazione più intensamente maschile, in linea con il Cristo vigoroso della Controriforma ed evitando che la figura di Gesù apparisse in secondo piano”.
L’opera è stata pubblicata solo nel 2011 in occasione di una mostra alla National Gallery di Londra in cui è stata presentata al pubblico (dopo un restauro che ha eliminato vecchie ridipinture). L’attribuzione finora è stata confermata da quattro studiosi internazionali, con pareri unanimi. Poco prima di abbandonare Milano per la caduta degli Sforza, Leonardo avrebbe dipinto una tavola del Salvator mundi destinata a un committente privato. Dell’opera restano alcuni studi, soprattutto al castello di Windsor. La memoria del quadro, sconosciuto fino a questa recente scoperta, era affidata all’incisione che nel 1650 circa ne aveva tratto Wenceslaus Hollar, ma del dipinto si erano perse le tracce.Il successo dell’originale del Salvator Mundi aveva prodotto, come accadeva nel passato, la realizzazione di numerose copie, le cui tracce si legano e si confondono con quelle dell’opera principale. Secondo alcune fonti, dopo l’occupazione francese di Milano, il quadro era finito in un convento di Nantes. Quando la copiò Hollar invece si trovava nelle collezioni di Carlo I d’Inghilterra, che molto aveva acquistato in Italia.
Il Salvator Mundi venduto all’asta newyorchese, recentemente, apparteneva a un consorzio di commercianti americani con Robert Simon a capofila, proprietario di una galleria d’arte a New York. Dopo l’acquisto l’opera venne portata ai curatori del Metropolitan Museum per una valutazione e poi a quelli del Museum of Fine Arts di Boston, i quali però non si pronunciarono. Nel 2010 è stato infine portato alla National gallery dove il direttore Nicholas Penny ha invitato quattro studiosi per valutarlo: Carmen C. Bambach, curatrice del dipartimento di grafica del Metropolitan museum, Pietro Marani e Maria Teresa Fiorio, studiosi milanesi autori di diversi saggi su Leonardo e sul Rinascimento, e Martin Kemp, professore emerito di storia dell’arte all’Università di Oxford e noto studioso di Leonardo. I pareri sono stati tutti positivi, così si è deciso di procedere al restauro e di esporre l’opera alla grande mostra monografica su Leonardo che si è tenuta nel museo londinese dal 9 novembre 2011.
Maurizio Bernardelli Curuz afferma: “Per quanto il modello iconografico generale si avvicini a quello de Il Cristo Pantocràtore (Χριστός Παντοκράτωρ; dal greco pas, pasa, pan [tutto] e kràtein [dominare con forza, avere in pugno]) qui assistiamo a una notevole, splendida inversione concettuale di uno stereotipo iconografico che risale quantomeno ai bizantini. Cristo, nell’opera che stiamo analizzando, non è un re, che tiene in pugno il Creato e l’umanità, ma un padre e un fratello generoso. Ha perso l’atteggiamento maestoso e severo; non ha trono.
E’ significativo osservare quanto l’opera punti su due elementi, che sono perfettamente messi a fuoco e costituiscono la centralità semantica del dipinto che, a mio giudizio, si pone stilisticamente a un punto di incontro della pittura di Boltraffio con quella di Leonardo. Essi sono la mano benedicente e il globo di cristallo di rocca del Cielo, dell’Universo benigno, dello spirito superiore. L’artista potenziò invece lo sfumato del volto di Cristo per sfocarne lievemente l’immagine, – e non fu solo conseguenza di un’osservazione scientifica della naturale messa a fuoco degli occhi – con l’intenzione che lo spettatore rivolgesse ogni attenzione alla benignità del suo santo gesto, tutto estroflesso nei confronti degli uomini. E’ un Cristo sindonico, che appare come traccia straordinaria nel dipinto. Un Cristo che somiglia molto a quello della Sindone; un Cristo che emerge dall’oscurità, come durante la Cena in Emmaus. Che si rivela, senza voler essere protagonista; che non chiede di essere osservato o adorato, ma che dona esclusivamente Bene al mondo, senza chiedere nulla, in cambio. Tutto si concentra sull’ossimoro di un’azione immota: donare con amore, per l’eternità, estinguendosi dietro l’amore stesso. La filosofia sottesa al dipinto è tutta leonardesca. Il segno appare duplice. Boltraffio e Leonardo.
“Ma un Cristo così neo-platonico, così dolcemente potente, nel momento in cui si fonde con le proprie azioni, non poteva essere in linea con il pensiero della Controriforma. – aggiunge Bernardelli Curuz – La modifica del quadro, a mio giudizio, fu apportata, con la messa a fuoco del volto e l’aggiunta di particolari virili, come i baffi più evidenti – poi eliminati dal restauro – proprio perché era troppo alto il concetto leonardiano nel dipinto. Gesù non chiedeva preghiere; non chiedeva genuflessioni. Forse non chiedeva nemmeno buone azioni o fioretti. Gesù non era un mercante che dava per ricevere o che ricompensava soltanto coloro i quali gli consegnavano un’offerta, pur essa altamente spirituale. Faceva discendere la Grazia. Donava il cielo. L’azione del quadro è quella. La sua mano destra dice: io ti benedico. Quella sinistra: e ti dono il Cielo, la vita eterna, rappresentata dalla sfera cristallina che è simbolo della divinità. Cristo concede l’immortalità. E concede all’uomo la condivisione dello stato divino, dopo la morte. Così, osservando quest’opera, pareva che la Salvezza fosse destinata a tutta l’umanità, senza sacrifici. Per questo il Salvator Mundi di Boltraffio-Leonardo fu considerato contrario al primo pensiero tridentino e venne modificato. L’azione registica del maestro permea l’opera. Lo sfumato è moltiplicato. La sfocatura del volto è al di là del limite della perfetta leggibilità del soma; per un’azione pittorica che portava a due esiti: mettere Cristo in secondo piano e rappresentarlo con una dolcezza altrimenti inesprimibile. Insisto nel sottolineare che è il Cristo vicino a quello di Emmaus. Tutto. nel fondale, è tenebra disperante; tutto è notte, oscurità. Un pellegrino si unisce ai due discepoli che camminano, con la morte nel cuore. Gesù è morto. E tutto sembra essere messo in discussione. Ma Gesù, che è quel pellegrino sconosciuto, emerge dall’oscurità, nella taverna, e viene riconosciuto dal modo in cui spezza il pane. Nel Salvator Mundi, Cristo sale da buio, si materializza portando gioia e aiuto a chi lo osserva. A chi ha il cuore aperto a ricevere benedizione e sfera di cristallo. Allora viene da pensare che la preghiera non serva per chiedere una grazia, ma semplicemente per preparare la propria anima a riceverla. E seguendo ciò che è contenuto in questo quadro siamo indotti a concludere, con conseguenze razionali, il pensiero dell’estensore dell’opera. L’uomo pravo non viene punito da Dio; ma non è semplicemente in grado di ricevere questo dono e di seguire il percorso dell’immortalità gioiosa poichè, distratto dal male, non è in grado di porsi in ascolto”.
” E ora analizziamo l’abito – annota Maurizio Bernardelli Curuz – Nella parte superiore, poco sotto il collo appare il rubino. E’ un segno di amore; di fuoco. Una pietra utilizzata per il matrimonio. E indica un amore travolgente, persino passionale. Una perla ferma invece le due bande che indicano la croce. La perla stessa, simbolo della purezza femminile, sembra indicare, nell’insieme, il matrimonio con un’umanità che è donna e uomo, come Cristo è donna e uomo, in una dimensione spirituale. Madre e padre.”
Sotto: due dipinti di Giovanni Antonio Boltraffio. Giovanni Antonio Boltraffio o anche Beltraffio (Milano, 1467 – Milano, 15 giugno 1516) è stato un pittore italiano del primo Rinascimento. I primi lavori di Boltraffio sono influenzati dallo stile di Bernardo Zenale, Ambrogio Bergognone e Foppa, ma dopo l’arrivo di Leonardo a Milano nel 1482, Boltraffio è documentato (da una nota dello stesso maestro toscano nel manoscritto C dell’Institut de France) nella sua bottega, insieme a Marco d’Oggiono e Gian Giacomo Caprotti, o Salaì
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Salvator Mundi a 450 milioni di dollari. Leonardo o Boltraffio? Cosa significa l'opera?
Bernardelli Curuz: L'artista potenziò lo sfumato del volto di Cristo per sfocarne lievemente l'immagine, con l'intenzione che lo spettatore rivolgesse ogni attenzione alla benignità del suo santo gesto, tutto estroflesso nei confronti degli uomini. E' un Cristo sindonico, che appare come traccia straordinaria, che non chiede di essere osservato o adorato, ma che dona esclusivamente bene al mondo, senza chiedere nulla. La filosofia sottesa al dipinto è tutta leonardesca