di Cecilia Bertolazzi
[“L]a sans par”, la senza pari. La scritta in lettere d’oro campeggia sullo stendardo che Giuliano de’ Medici, il 29 gennaio 1475, porta innanzi in una famosa giostra destinata a passare alla storia per la straordinaria ricchezza degli ornamenti e delle armature.
La definizione è ai piedi di una Pallade d’oro e di bianco vestita che brandisce una lancia e lo scudo di Medusa. Il suo sguardo è rivolto al sole. I panni del suo abito fremono al vento leggeri, come i suoi lunghi capelli. Accanto a lei Amore, sconfitto e legato ad un ceppo, osserva le armi spuntate che giacciono a terra.
Lo stendardo con la giovane fanciulla ritratta da Sandro Botticelli è l’atto di nascita di un mito, destinato ad attraversare le stagioni per giungere fino a noi. Al vento ancora invernale di quella giostra quattrocentesca si muoveva sinuosa l’icona della “bella senza pari”: Simonetta Vespucci. Sposa sedicenne di Marco, parente del ben più noto Amerigo, la “bella Simona” morirà a Firenze appena ventitreenne nel 1476, a poco più di un anno dalla leggendaria impresa di Giuliano.
La sua pur breve esistenza non fu vana. Il suo volto, idealizzato fin dalla prima apparizione, si moltiplicò come in un gioco di specchi, prestando i lineamenti di volta in volta a Veneri, Palladi, allegorie femminili, Madonne, fino alla Beatrice dei disegni per la Commedia dantesca. Simonetta diventa l’ideale femminile del secondo ’400, e il suo mito continua, con alterne vicende, “come un fenomeno carsico, tanto da ricomparire periodicamente anche a distanza di tempo nelle versioni più varie”. Una presenza iconica, appunto senza pari, che ha superato le speculazioni filosofiche-letterarie che l’avevano generata.
Come e perché avvenne che soprattutto il pennello di Botticelli non si stancasse di ritrarla nei dipinti mitologici e allegorici con i capelli compostamente agitati dal vento, in una casta nudità esibita senza il velo degli abiti da casa o cerimonia, ce lo spiegano Giovanna Lazzi e Paola Ventrone in Simonetta Vespucci. La nascita della Venere fiorentina, edizioni Polistampa (172 pagine, 18 euro).
Come presi per mano, attraverso le pagine, si entra e si esce da banchetti nuziali, stanze matrimoniali, studioli dove si consuma il rovello d’amore. Atmosfere che descrivono la condizione femminile in una Dominante, come veniva chiamata Firenze, che negli anni ’70 e ’80 respirava un clima di grande fervore e mutamento. E’ così che si arriva a comprendere il graduale passaggio secondo il quale la giovane Simonetta entrò, proprio come una Venere, leggera ed elegante, nell’immaginario collettivo diventando, attraverso le sue sembianze idealizzate, una sorta di “fenomeno mediatico”.
Il nome di Simonetta, al di là delle vicende della sua vita terrena, fulminea e probabilmente analoga a quella di molte altre donne di nobile lignaggio, servì a dare “identità ad un personaggio creato artificiosamente, all’idea di perfezione, bontà e bellezza”.
L’armonia delle forme, la purezza dell’animo, la gentilezza dei modi celebrati nella persona della Vespucci davano corpo all’idea della donna che rende perfetto l’uomo che la ama. E’ attraverso di lei che si realizza il sogno platonico del tempo, un sogno reso ancora più sublime dalla prematura scomparsa della giovane. Solo la morte, infatti, annullando il corpo, poteva trasformare la donna reale nell’ideale di donna, ninfa dei fiori e delle acque, custode delle virtù.
In questo susseguirsi di passaggi, pittura e letteratura concorrono in sintonia assoluta. Poliziano, Botticelli, Ficino e poi Lorenzo furono gli artefici della consacrazione della bellezza ideale di Simonetta, un mito finalizzato a dimostrare come la Signoria medicea fosse in grado di riportare Firenze all’età dell’oro del mondo classico, facendo rinascere la concordia, l’armonia e, appunto, la bellezza.
Un esempio su tutti è costituito dal capolavoro di Botticelli noto come la Nascita di Venere, trascrizione visiva dei versi di Poliziano ispirati a loro volta al passo omerico in cui è descritta la nascita di Afrodite, la dea della bellezza. Nel dipinto la donna si staglia marmorea nel bagliore della conchiglia che sembra regalarle riflessi opalescenti, “perla viva” creata dalla schiuma del mare. Su di lei si riversa il trionfo della natura, Zeffiro fa scendere, come una sorta di pioggia benedicente, pallide rose. L’unica Ora che accoglie la fanciulla divina ne riecheggia i lineamenti, incorniciati da caste trecce color miele. La veste è bianca, vaporosa, alla ninfale, intrecci di rami le circondano la vita e la scollatura. Alle loro spalle una fitta foresta di agrumi, ai piedi piante di fiumi e paludi che possono richiamare le rive dell’Arno e le coste toscane.
In questi dettagli la chiave di lettura. La nudità di Venere è ricondotta all’inno omerico, anello di congiunzione per la rinnovata sopravvivenza degli dei pagani. La Bellezza torna a splendere nell’età laurenziana, nella cultura dei suoi poeti e dei loro mecenati. Un’ulteriore e più approfondita lettura si può celare sotto il richiamo al mondo antico. Difficile non pensare che vi sia nel dipinto un’allusione politica alla famiglia dominante e, di conseguenza, non vedere nei volti dei protagonisti quelli più o meno idealizzati della famiglia stessa. Se così fosse, come non riconoscere nella Venere proprio Simonetta, la donna più bella del momento?
Il senhal del nuovo modello si riscontra, sul piano filosofico, negli occhi luminosi come stelle, allusivi della freschezza della mente e della bontà d’animo, e sul piano antiquario dal fluttuare di chiome sciolte sulle spalle ad assecondare il movimento aggraziato del corpo, ulteriormente enfatizzato dalle vesti leggere.
E’ così che Poliziano, nella Fabula di Orpheo, per bocca del pastorello Tyrsi descrive Euridice: “di neve e di rose ha ’l volto e d’or la testa / tutta soletta e sotto bianca vesta”. Ancora una volta, il riferimento visivo non può non essere che ai dipinti botticelliani della Primavera e di Pallade e il Centauro, in cui compare una fanciulla bionda ed eterea, vestita di un leggiadro abito spumeggiante. Ecco allora che, in un’ideale galleria, potremmo trovare accostati ai numerosissimi ritratti assegnati a Simonetta – ad esempio, il busto in marmo attribuito al Verrocchio e il quadro in figura di Cleopatra di Piero di Cosimo -, le dame ignote scolpite da Desiderio da Settignano e dallo stesso Verrocchio, l’Esmeralda Brandini del Botticelli o, ancora, la straordinaria varietà di volti effigiati dal Ghirlandaio sulle pareti della cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella.
Tutte le fanciulle offrono un’immagine femminile raffinatamente domestica, a cui contribuisce altresì la scelta dell’abbigliamento. Botticelli, e poi Ghirlandaio e Piero di Cosimo tramandano una figura all’antica, a cui Simonetta presta la purezza dell’ovale, gli occhi dalle palpebre prominenti, il biondo dorato delle lunghe chiome, mentre la veste alla ninfale ne cela appena le forme. La femminilità è esaltata dal panneggio classico, la brezza muove i veli, l’incedere appalesa i piedi nudi. Il guarnello, l’abito indossato tra le mura domestiche, era diventato anche il vestito degli angeli, e opportunamente modificato copre Venere, la Primavera o la severa Castità.
Negli affreschi della Nascita del Battista in Santa Maria Novella il Ghirlandaio trasferiva, com’era uso, la scena sacra nella contemporaneità, e i personaggi erano ben riconoscibili e di alto rango. Colpisce la presenza di una giovane fantesca che entra all’improvviso in un turbine di vento. Chiunque adesso potrebbe darle un nome: Simonetta Vespucci.