di Elena Charlotte Rainelli
Venezia ospita nello splendido scenario di Palazzo Grassi “Le Grand Jeu”, fino al 10 gennaio 2021, la mostra “Henri Cartier-Bresson, co-organizzata con la Bibliothèque nationale de France e in collaborazione con la Fondation Henri Cartier-Bresson. Si tratta di un progetto inedito basato sulla Master Collection, una selezione di 385 scatti operata dallo stesso Henri Cartier-Bresson nel 1973, su invito di due amici collezionisti, Dominique e John de Menil.
Matthieu Humery, curatore generale della mostra vuole sottolineare un tema caro ai surrealisti lo svago e il divertimento, pieno di sfaccettature ma che rientrino nelle regole del gioco, a cui è necessario sottostare. “Jeu” in francese si avvicina a “Je”, che significa “Io”. Il “Grand Je” viene celebrato in primo luogo attraverso l’omaggio all’opera di un unico artista Bresson Cartier e, simultaneamente, attraverso “L’io” di cinque curatori: il collezionista François Pinault, la fotografa Annie Leibovitz, lo scrittore Javier Cercas, il regista Wim Wenders e la conservatrice Sylvie Aubenas. Ognuno dei cinque curatori è stato invitato a selezionare una cinquantina di immagini dell’artista, senza conoscere quella degli altri; ciò ha permesso di realizzare cinque esposizioni in libertà ed autonomia.
Annie Leibovitz vede le opere di Cartier Bresson in un libro appena pubblicato “The World” mentre era una giovane pittrice e studiava al San Francisco Art Institute. Fu colpita dalle immagini e dall’idea che potesse diventare una fotografa che viaggia per il mondo e testimonia la vita delle persone attraverso il ricordo, attraverso lo sguardo che come Cartier-Bresson aveva scoperto nel dipingere. Henri Cartier-Bresson nasce a Chanteloup nel 1908 e sviluppa già a sette anni il disegno. Per l’artista non esiste nessun rapporto tra il disegno, la pittura e la fotografia, a parte lo sguardo. Quello che conta è sempre lo sguardo, ma il fatto di usare uno strumento invece di un altro è indifferente. Nel 1932, dopo aver passato un anno in Costa d’Avorio scopre la macchina fotografica Leica e da quel momento riconosce nella realtà un ritmo di superfici, di linee, di valori: l’occhio sceglie il soggetto e l’apparecchio deve imprimere le decisioni della mente sulla pellicola. Per Bresson la fotografia va letta e vista nella sua totalità, nel suo insieme, come un quadro. La composizione deve seguire una linea di necessità, deve coordinare ciò che si vede, la forma non deve essere separata dal contenuto. In “Bougival” France 1956, Bresson costruisce un’immagine di grande complessità. La figura centrale, un giovane uomo, contravvenendo a tutte “Le regole dei terzi” è sistemato nel mezzo della scena. Tutti gli altri personaggi, donne, bambini, animali guardano esclusivamente Lui. Ancora oggi resta nel dubbio se l’uomo al centro sia il padre, semplicemente un conoscente o un marinaio di passaggio, ma ciò ha contribuito a creare diverse chiavi di lettura della scena. Cartier Bresson credeva che le immagini più forti provenissero da una famigliarità del luogo, e dalla conoscenza della particolarità delle strade che permettono all’occhio acuto del fotografo di catturare abilmente la città.
L’aspetto realistico è sempre stato preponderante in Cartier Bresson, come si può vedere nella fotografia “Prime ferie pagate, sulle rive della Marna, ” (Premiers congés payés bords de Marne – France 1936) dove si vede una famiglia seduta sulla sponda del fiume intenta a mangiare e rilassarsi e delle bagnanti che manifestano la loro gioia in minuscoli dettagli. La scena sottolinea la valenza sociale delle prime ferie pagate, ma sempre con estrema semplicità e onestà. La fotografia evidenzia anche un fatto storico. Prima del 1936 la maggior parte dei lavoratori, pagati ogni due settimane all’ora, erano riposati solo la domenica e quando non lavoravano, non venivano retribuiti. Solo le professioni liberali, gli affittuari, i commercianti hanno preso congedo (non retribuito) mentre i funzionari dello stato, dal 1853, avevano il diritto di prendere una quindicina di giorni di assenza (sezionata o presa all’ingrosso) senza trattenere il trattamento. Il 3 maggio 1936 il Fronte Popolare vince le elezioni e provoca con la sua vittoria un’ondata di richieste tra i lavoratori: movimenti di sciopero e occupazioni pacifiche di fabbriche … La Francia è paralizzata e si stanno svolgendo discussioni. Nella notte tra il 7 e l’8 giugno vengono firmati gli accordi “Matignon”: l’introduzione della settimana a 40 ore e la concessione di congedo di 15 giorni di congedo retribuito.
Per Bresson-Cartier il mondo è un cambiamento a cui bisognava adattarsi. Viaggia in Europa, in Messico e negli Stati Uniti e inizia a interessarsi al cinema. Collabora con il regista Jean Renoir nel 1936 e nel 1939 e, contestualmente, realizza tre documentari dedicati alla guerra in Spagna. Fatto prigioniero nel 1940, nel 1943 riesce a scappare al terzo tentativo. Nel 1954 è il primo fotografo a essere autorizzato a entrare in Unione Sovietica dall’inizio della Guerra Fredda. I suoi grandi cambiamenti risalgono al 1955, la vittoria della società dei consumi e di tutte le conseguenze del mondo in crescita dove il pianeta veniva saccheggiato senza pietà. Ritorna dall’ Oriente nel 1950, dopo aver trascorso tre anni in Cina, India, Indonesia e Birmania in cui non aveva visto una sua foto, mandava i negativi alla Magnum. L’Oriente viene descritto come una concezione diversa del mondo, dove il fotografo si sentiva a suo agio.
“Le mie foto sono lì, io non le commento, non ho niente da dire. Si parla fin troppo, si pensa troppo. Ci sono scuole per qualsiasi cosa, dove si impara di tutto e alla fine non si sa niente, non è impensabile. Ci vuole un certo bagaglio intellettuale… La cosa meravigliosa della fotografia intuiva, la fotografia dal vero, è la reazione personale, questa reazione vitale, per cui sei fino in fondo te stesso e allo stesso tempo ti dimentichi di te stesso per interrogare la realtà o per cercare di comprenderla” (H.CARTIER-BRESSON)
Venezia riparte dalla certezze di Henri-Cartier Bresson. Il nostro scatto libero. L'obiettivo centrato
“Le mie foto sono lì, io non le commento, non ho niente da dire. Si parla fin troppo, si pensa troppo. Ci sono scuole per qualsiasi cosa, dove si impara di tutto e alla fine non si sa niente, non è impensabile. Ci vuole un certo bagaglio intellettuale… La cosa meravigliosa della fotografia intuiva, la fotografia dal vero, è la reazione personale, questa reazione vitale, per cui sei fino in fondo te stesso e allo stesso tempo ti dimentichi di te stesso per interrogare la realtà o per cercare di comprenderla”