Vincenzo Foppa e i Caylina. Dynasty tra pittori-parenti e pittori-serpenti

Non semplice lite, ma caso giudiziario senza esclusione di colpi. La vecchia madre dei Caylina, infatti, aveva lasciato in eredità la casa di famiglia, invece che ai figli, a Vincenzo, in cambio del suo mantenimento. Tale volontà fu contestata da Bartolomeo. Già dal 1481 Foppa si era rivolto nientemeno che al duca Gian Galeazzo Sforza affinché fosse interrotto il comportamento molesto del cognato, che non solo lo accusava di non aver rispettato i patti di mantenimento, ma addirittura di aver “venduto la casa di Sant’Agata”

di Alberto Zaina

[U]n esempio di come vicende biografiche, da precisare nelle esatte datazioni, ma anche nei risvolti giuridico-economici familiari, possano influire pure sulla lettura storico-critica.


Vincenzo Foppa, Madonna del libro
Vincenzo Foppa, Madonna del libro

Come è noto, Vincenzo Foppa è il bresciano gran traghettatore dell’arte lombarda dal persistente predominio delle eleganze tardogotiche (emergenti ancora nella prima opera che gli è attribuita, la Madonna Berenson) al Rinascimento, con un verbo predicato nella natia Brescia, nei cantieri viscontei di Pavia e di Milano e oltre Appennino, nella Repubblica genovese. Una decisa svolta appare nel suo I tre Crocifissi della Carrara, dove il realismo della raffigurazione si sposa ad un saldo impianto prospettico tipicamente rinascimentale, mentre nello sfondo paesaggistico, così diverso dai cristallini cieli “toscani” di Piero della Francesca, già si respira quell’atmosfera “padana” pervasa da sottili caligini, che si ritroverà negli affreschi della Cappella Portinari a Milano nel 1468. Il dipinto, firmato (VINCEN/CIUS BRI/XIENS PINXIT) e datato 1456 (MCCCC/LVI DIE/MENSIS/APRILIS), costituisce anche in assoluto il primo documento circa l’artista.
In tempi molto recenti, si è voluto leggere la data come 1450, a causa della mancanza del giorno del mese, così che il VI sarebbe da riferire al mese di aprile e non all’anno: una lettura in contrasto con elementari norme epigrafiche e che porterebbe a predatare alcune altre opere giovanili, fino a “costringere” ad anticipare a quel 1450 il viaggio che Vincenzo doveva aver fatto a Padova insieme al più maturo cognato, Paolo da Caylina il Vecchio, assorbendo in vario modo la cultura dei cantieri di Mantegna e Donatello. Viaggio che deve ritenersi piuttosto avvenuto tra il 1453 e il 1456, anno, questo, che coincide con l’approdo di Foppa a Pavia.
Paolo da Caylina il vecchio, Madonna tra i santi Rocco e Cristoforo
Paolo da Caylina il vecchio, Madonna tra i santi Rocco e Cristoforo

A Pavia egli giunge ancora con il cognato, e ciò è, peraltro, sottolineato da documenti del 1458, nei quali i due risultano soci in affari in quella città. E’ lo stesso anno in cui Paolo lascia nella vicina Mortara uno splendente polittico (datato e firmato) dove, seppur tra influssi dell’opera di Vincenzo e rinvii al Rinascimento toscano, l’insieme è segnato da prevalenti rimembranze delle eleganze tardogotiche a cui egli sarà sempre fedele.
E’ la forse un po’ trascurata vicenda ereditaria a permettere di dire che Paolo da Caylina doveva essere morto attorno al 1489, ossia poco dopo aver terminato l’ultimo suo dipinto, la Madonna tra san Rocco e san Cristoforo, nella chiesa di San Cristo. Nel 1489, infatti, Foppa fa ritorno a Brescia, ma Paolo non compare in nessuno dei numerosi documenti che ci sono pervenuti, neppure relativamente alla conclusione della lite con l’altro cognato, Bartolomeo, riguardante una questione di eredità dei Caylina, dove Paolo avrebbe dovuto essere citato.
Non semplice lite, ma caso giudiziario senza esclusione di colpi. La vecchia madre dei Caylina, infatti, aveva lasciato in eredità la casa di famiglia, invece che ai figli, a Vincenzo, in cambio del suo mantenimento. Tale volontà fu contestata da Bartolomeo. Già dal 1481 Foppa si era rivolto nientemeno che al duca Gian Galeazzo Sforza affinché fosse interrotto il comportamento molesto del cognato, che non solo lo accusava di non aver rispettato i patti di mantenimento, ma addirittura di aver “venduto la casa di Sant’Agata”.
Paolo da Caylina il giovane, deposizione
Paolo da Caylina il giovane, Deposizione

Quando il caso fu chiuso, nel 1489, i giochi non risultarono certo favorevoli a Vincenzo, forse anche perché il notaio rogante, Girolamo Moracavalli, era un parente di Bartolomeo. Il Moracavalli è il medesimo notaio che nel 1504 redigerà l’atto di vendita delle residue, ma notevoli proprietà pavesi di Foppa, il cui procuratore sarà Paolo da Caylina il Giovane, “figlio del fu Bartolomeo” (“quondam Bartholomei”). Paolo, alla morte dello zio, ne erediterà la casa e la bottega, nonostante Vincenzo avesse figli propri.
Diversamente da quanto si potrebbe supporre, però, nemmeno i rapporti tra Foppa e il nipote dovevano essere idilliaci: tale eredità appare infatti come un “atto necessitato” ancora dalla sentenza del 1489. Sporadica risulta pure la collaborazione artistica tra i due, che si riduce ad un presunto intervento nel 1509 di Paolo per alcuni angioletti nella Cappella Averoldi: Vincenzo aveva già quasi ottant’anni, e certo non poteva muoversi agevolmente sulle impalcature.
Ed è soltanto dopo la morte di Foppa, quando Paolo assume la gestione della bottega, che compaiono opere le quali, oltre a riprendere generici modi del defunto maestro, ne impiegano anche i cartoni: come quello utilizzato per le Deposizioni di Manerbio e di Budapest, databili tra il 1530 e il 1540, che replicano le figure centrali della Deposizione dipinta più di trent’anni prima, nel 1501, da Vincenzo per San Pietro in Gessate a Milano. Un indizio, questo, che Foppa, mentre era in vita, non aveva consentito che il nipote mettesse le mani sui suoi disegni.
Va detto comunque che, se per qualità pittorica Paolo da Caylina fu nettamente inferiore allo zio, seppe però sfruttare abilmente il “marchio”, fino a farsi chiamare Paolo Foppa, e riuscendo ad aggiudicarsi, pur nell’età di Moretto e Romanino, commissioni importanti, a partire da quella del coro delle monache in Santa Giulia.

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