di Giampiero Guiotto
[A]ndy Warhol è l’artista più internazionale di tutto il Novecento, nel senso che coglie interamente i lenti processi della globalizzazione in atto fin dagli anni ’60 e che esploderanno poi negli anni ’80. La sua arte, che appare facilmente comprensibile e riconoscibile, nasce nel contesto della produzione delle merci e della cultura di massa che dagli Usa si stava estendendo a tutto il mondo capitalistico. Rinchiudere la sua produzione nel contesto americano di quegli anni sarebbe perciò riduttivo e fuorviante, perché il suo modo di sentire non è più solo di un’America opulenta, consumistica, massificata, ma si allarga a tutta la civiltà occidentale, investendo i modelli della famiglia nucleare, del culto del lavoro, dell’esaltazione tecnologica e dell’euforia delle nuove merci. E’ questo il terreno di coltura per il quale il Pop di Warhol dilaga tra Coca-Cola, donne oggetto, sedie elettriche e di nuovo design, e immagini di politici che chiedono ai mass media di apparire belli e suadenti come dive del cinema. Questa civiltà si sbarazzava in poco tempo dell’immediato passato, in una ricerca isterica del successo e di inedite identità esteriori che esaltassero il piacere dell’“esserci” e la vita proiettata in pubblico. Nasceva così un nuovo realismo, quello del look che rende piacevole, variata e brillante ogni superficie. Di questa realtà visiva, attraverso prelievi banali e scontati, l’artista sceglie immagini che non rappresentano il reale, ma il suo apparire. L’immagine ha ormai fagocitato la realtà e si è essa stessa promossa a realtà. Essa vende così la sua falsità come verità. Warhol scopre che questa realtà, solo visiva, apparente e superficiale, non vuole significare niente ma solo mostrarsi nella sua natura di segno. Tutti i personaggi che egli ritrae non rappresentano se stessi ma l’immagine che il consumismo ha loro conferito.
Le loro icone non rimandano a significati profondi, né li rappresentano psicologicamente o umanamente: esse diventano segni linguistici di una comunicazione artificiale. L’arte di Warhol si chiarisce così come un vasto prelievo di immagini dal circuito comunicazionale, un prelievo elitario, snobistico e persino dandista, che egli ostenta allo scopo di indurre il fruitore a guardare attentamente. In questo modo egli avanza un tacito rimprovero alla consueta disattenzione del nostro sguardo, ma nello stesso tempo ci induce ad apprezzare il suo prodotto artistico ricorrendo, non diversamente dai mass media, alla persuasione dell’immagine pubblicitaria. L’artista disvela così che la scelta del mezzo espressivo, cioè del codice (prelievo di immagini pubblicitarie e ripetizione seriale), è già scelta di messaggio. L’indurci a non solo vedere, ma guardare ci porta, come vuole l’autore, a scoprire il “tempo americano” del click fotografico, dell’istantanea, dell’evento, dell’eterno presente immediatamente consumabile e non degno di essere memorizzato. Nella scelta di immagini artificiali, tuttavia, l’artista non mette mai in gioco il suo gusto, la sua soggettività, la sua libertà. Non lo fa nemmeno nell’“Autoritratto”, che non è il ritratto di Narciso e neppure l’espressione di sentimenti o movimenti interiori dell’autore, ma pura immagine pubblica da contemplare. Quest’arte non comporta, dunque, un lavoro di affaticamento dell’intenzionalità o della creatività, ma risulta un prelievo di immagini già viste e già ritoccate che Warhol reimmette nel circuito mercantile della comunicazione di massa. L’arte non pretende più di modificare il mondo ma solo di registrarlo, non di dare risposte ma solo di porre domande che imbarazzino la coscienza collettiva, nell’epoca in cui l’opera d’arte ha perduto l’unicità e l’aura perché divenuta tecnicamente riproducibile. Trasformare immagini viventi in icone da esporre nel supermercato dell’arte comportava togliere ai volti ogni segno relativo della loro storia individuale, per mutarli in immagini pubbliche, oggetto di consumo merceologico, indipendentemente da ogni risvolto ideologico o ideale, biograficamente riferibile al soggetto rappresentato. Così ad esempio, nella serie dall’ironico titolo “Ladies and gentlemen”, il travestito negro, emarginato per il suo colore e per la sua omosessualità, viene innalzato da Warhol a individuo che fa spettacolo della sua stessa vita mettendo in scena un corpo che appartiene ad un’altra identità, ridotta ad apparenza. Al pari dell’uomo della strada, Warhol decise di fare l’artista attraverso una spersonalizzazione predisposta da lui stesso. Tutta la sua arte non potrà, pertanto, essere né naturale, né personale, ma potrà solo tendere verso l’anonimia. In “Flowers”, i fiori di ibisco perdono la loro naturalezza per acquistare una maggiore forza estetica grazie a colori aggressivi o sfocati che appartengono alla pubblicità e alla fotografia. E’, questo, il colore tecnologico e antinaturalistico che segue le mode e le novità, che cede al fascino del consumismo. Il fiore diventa immagine di un ricordo sbiadito o, al contrario, di un’impressione violenta che Warhol ci restituisce come segni di una natura da preservare, frammenti di un mondo che sta scomparendo.
Similmente avviene nella serie di serigrafie di animali titolata “Specie in via di estinzione”. La nitidezza del segno di immagini ripetute e inflazionate al punto da neutralizzare qualsiasi drammaticità, porta con sé la carica emotiva del colore espressionista, per poi cedere all’estetica postmoderna del maquillage tecnologico. Egli ci presenta visivamente le maschere sociali che hanno invaso il nostro spazio vitale a tal punto che rischiamo di non percepirle più come tali.