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William Fantini vive in una casa impegnativa e sua, nel centro di Gardone Valtrompia. E’ un buon vantaggio, conoscere la casa dell’artista. E’ già scoprire l’impasto, l’antro intuitivo, l’angolo delle malinconie, i trapezi di nicchia da cui scopre il cielo. Il luogo dove portano la mente e la fantasia, l’equilibrio e la nevrosi sulla tela. L’antro è fresco, vergine del calore artificiale, scaldato dalla confusione dei supporti, dei mobili e delle finestre libere sulla contrada. Da un momento all’altro, da una delle dieci porte orbitanti, potrebbe entrare uno dei suoi miti e chiedere un caffè, un sigaro, una preghiera. Fantini viene catturato dall’arte e in parte ne usa. La cattura è carnale. L’arte pittorica lo investe e lo costringe a diversi innamoramenti. Il primo dei quali si impianta su un’idea mistica ed eroica della vita e il corpo che ne riceve, in finale, un martirio. Si specializza per un po’ di anni nella figura a pieno, quindi nel nudo privato degli interni e infine, proprio di questi mesi, nel ritratto di famiglia dei mestieri e delle parentele, con i baffi del nonno e la seta della bimba. Avete presente l’album di famiglia western e dunque la civiltà montanara della Valtrompia capitale? Non esiste una congiunzione di latitudini tra Helena, capitale del Montana, e Gardone capitale, almeno, della Valtrompia? Esiste. Si nota nella narrazione ombrata di queste famiglie intere passate nelle baite, nelle contrade, nei boschi. Passate ed ora ripassate nell’opera di William il quale si avvicina alla sua terra con una nuova amicizia. Ancora giovane, prende per mano la memoria e si impegna a narrarla con la sua alba permanente di fanciullo-pittore.
E’ il caso del pittore-storico, un percorso classico particolarmente arduo, con le trappole dell’oleografia e dell’asetticità. William Fantini, finalmente, si lascia andare e risposa la sua gente, dalla fine dell’Ottocento fino alla metà degli anni Cinquanta. Poi, arriva la sua generazione. Siamo partiti dal fondo e dall’interno della casa per raccontare la personalità complessa e però estroversa di un pittore sano. Sano e perfino ingenuo. Sano per coerenza agli ideali, ai miti dei santi e della politica. Ingenuo nel testimoniare tali miti a chi li esige per moda. Il pericolo di William è di finire stritolato nelle mode e nei topoi che ha combattuto, a causa del fatto che i suoi miti sono spinti sulle musiche e sulle immagini pubblicitarie. Il suo Che Guevara, la sua Teresa di Lisieux, la sua Giovanna D’Arco si compongono di una verginità, di un’eternità invincibile, ignote alle nuove generazioni. Stanno nella storia e nella preghiera, fuori dal camposanto e fuori dalle piazze. Stanno come sospese e necessarie. Il Che di William è il don Chisciotte per Sancho, che è lui, servitore e fornitore di sogni, sangue di ogni giovinezza, bellezza di ogni amore. Guevara, per Fantini, è la Primavera per Botticelli, una tela di analogie, come spiega nobilmente il nostro direttore Maurizio Bernardelli Curuz, da cui trarre scienza, governo di vita e morale estetica. Il Che Guevara non è più, qui, il marxista delle Americhe. Ridiventa ciò che forse è stato, l’inquieto, addolorato uomo di medicina applicato alla precarietà dell’esistenza, portato alla scelta di una rivoluzione come distrazione dalla morte, come depistaggio da cui trarre pane per i poveri e dignità per i diseredati. Fantini è il pittore della carne vinta, domata dall’arte pittorica. Le giovani entrano nel suo studio, vengono ritratte nella fermezza della loro età. La stagione prevale sull’individualità, Fantini interviene a includere la persona nella generazione, ed è anche questa la sua scelta cultural-politica di fondo, l’invito a non celebrare, a non divinizzare la persona, eccetto i santi il cui corpo è stato bruciato dai nemici per la sacralità dei deboli. Il nudo di Fantini è fermato tra plasticità e morte, nudo avvertente, nudo a scadenza per chi investe su di esso a perpetuità. Laicamente, l’artista bresciano invita a dedicare al corpo l’acqua della purificazione. Fantini pesa il grasso del tempo, con la stadera del lombardo e non con l’occhio mollemente sarcastico di Botero. E’ un grasso, il nostro, recuperabile, la dieta è possibile. Fantini la declama: cento calorie di lealtà tra le generazioni, mille calorie di ridistribuzione e di sintesi tra laicità e religiosità, lettura profonda della coscienza; è lì l’incastro formidabile con il Cielo. Altre calorie per stagionare lo stile, le stesse necessarie a scaldare la tela e a non bruciarla.
Criticamente, il nostro pittore proviene da una certa concettualità applicata al figurativo, alla persona, ed ora si sposta dagli arti e dai visi e si sente attratto molto più dagli orizzonti, da un’espressione di terra senza confini, da un piano alto di fuoco e di azzurro. E’ un intellettuale della classicità con l’aggiunta della coscienza civile, di un obbligo alla moralità pubblica prima inesistente. A William Fantini non bastano, ormai, le figure, lo hanno estenuato. Le ama, sempre, richiede una pausa, un monacale distacco, un anno sabbatico. Gli accade, frequentemente, di scrutare la fascia tra cielo e terra, di ammirarla scritta in un bagliore orizzontale di rosso e di giallo nel cuore di una pista blu, il livello della terra, la superficie di calpestio del compromesso. Qui, gli scottano i piedi, non intende confondersi con l’astrazione e pure non è intenzionato a ripetere l’inchino alla figura. Cammina e studia una scelta tra passato e presente. Gli ho consigliato di mettere un cero ai suoi santi e ai suoi miti e di raccogliere lo zaino per la nuova avventura dove il cielo si mescolerà con la terra e, per un poco, le donne e gli uomini prenderanno il posto dei fili d’erba. Mi pare che abbia ascoltato con interesse e mi abbia salutato con affetto. Che è un segno di stare al mondo, sapendo di non essere soli e di considerare buoni i consigli in circolazione.
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[PDF] William Fantini, vergini ed eroi
STILE Brescia 2007