48mila messaggi artistici di antichi “pastori erranti” studiati in Trentino sulla roccia del Cornòn. Giotto leggendario

Tutti i segni/scritte che i pastori hanno lasciato- a partire dal XV secolo - sono arrivati fino a noi perché i custodi delle greggi li hanno dipinti usando dell’ocra rossa reperibile sulla stessa montagna - il ból o ból de bèssa, di pecora -, chiamato così perché in passato serviva a contrassegnare le pecore
Alcune scritte vergate da pastori nel luogo studiato @Archivio METS San Michele

“Sguardi sulle scritte dei pastori”, 48.000 messaggi dipinti sulla roccia del Monte Cornón.
È affascinante la lunga ricerca compiuta dall’istituzione museale di San Michele e sintetizzata nel volume “Sguardi sulle scritte dei pastori” presentata in questi giorni al METS – Museo etnografico trentino San Michele. La curatrice della ricerca e del volume (edito nelle Collane del Museo) è Marta Bazzanella, funzionaria conservatrice del METS. Con lei, alla presentazione, l’archeologo Enrico Cavada e lo storico dell’arte Federico Troletti. In più di cinque secoli sugli spalti rocciosi del Monte Cornón in Val di Fiemme sono stati lasciati quasi 48.000 messaggi dai pastori che pascolavano pecore e capre affidate loro dai contadini del fondovalle.

Monte Cornon e i paesi di Tesero, Panchià e Ziano di Fiemme
@ Foto Laura Gasperi/MUCGT

Il massiccio del Monte Cornón si trova sopra i paesi di Tesero, Panchià, Ziano di Fiemme e Predazzo. Tutti i segni/scritte che i pastori hanno lasciato sono arrivati fino a noi perché i custodi delle greggi li hanno dipinti usando dell’ocra rossa reperibile sulla stessa montagna – il ból o ból de bèssa, di pecora -, chiamato così perché in passato serviva a contrassegnare le pecore. Per fissare il colore sulla roccia si avvalevano del latte degli stessi ovini o caprini mescolato, usando un ramoscello di ginepro, all’ocra rossa. La scritta più antica – scrive la curatrice Marta Bazzanella – è di data incerta, fra il 1430 e il 1470. Le scritte rosse sedimentate sulle rocce chiare del Monte Cornón sono visibili percorrendo le strade e i sentieri della montagna. Raccontano frammenti di storie che contribuiscono a “definire” il tessuto socio economico del territorio alpino della Val di Fiemme. La ricercatrice Bazzanella, coadiuvata da Silvia Dal Piaz e Ovidiu Tanase, ha documentato questa preziosa testimonianza con un apparato fotografico notevole nel prestigioso volume. “Un mondo più di animali che di uomini. Considerazioni sull’economia dell’incolto nella storia antica di Fiemme”, è il titolo del contributo di Enrico Cavada già funzionario della Soprintendenza per Beni Culturali della provincia autonoma di Trento, mentre Federico Troletti, storico dell’arte e componente del Comitato Scientifico del METS, interverrà con “I contesti delle incisioni storiche in Valcamonica”.

Il lavoro di ricerca si è potuto realizzare grazie anche alla compartecipazione del Bacino Imbrifero Montano dell’Adige, della Comunità territoriale della Val di Fiemme e delle Amministrazioni comunali di Panchià, Predazzo, Tesero e Ziano di Fiemme.

La decorazione risulta come un’opera collettiva trans-temporale, alimentata da una profonda compostezza. Le scritte e gli elementi decorativi dimostrano un”introiezione non superficiale di elementi grafici e decorativi che caratterizzano le aree sacre – chiese, edicole religiose ecc – e cimiteriali. A dimostrazione della profonda attenzione dei pastori agli elementi iconici e aniconici della cultura a loro contemporanea.

L’area viene così “sacralizzata” e oggetto della testimonianza di un passaggio individuale all’interno di un’imponente opera collettiva.

Nella storia la figura del pastore fu spesso collegata – a livello di immaginario collettivo – all’arte musicale, alle composizioni poetiche e alla pittura. La leggenda del pastore-pittore fu utilizzata per narrare l’origine di Giotto.

“Cominciò l’arte della pictura a sormontare in Etruria in una villa allato alla città di Firenze la quale si chiamava Vespignano. Nacque uno fanciullo di mirabile ingegno, il quale si ritraëva del naturale una pecora. – scriveva Lorenzo Ghiberti – In su passando Cimabue pictore per la strada a Bologna vide el fanciullo sedente in terra et disegnava in su una lastra una pecora. Prese grandissima ammiratione del fanciullo, essendo di si pichola età, fare tanto bene, veggendo aver l’arte da natura, domandò il fanciullo, come egli aveva nome. Rispose e disse: “per nome io son chiamato Giotto, e ‘l mio padre ha nome Bondoni et sta in questa casa, che è appresso”, disse a Cimabue andò con Giotto al padre, aveva bellissima presentia, chiese al padre el fanciullo. E‘ l‘ padre era poverissimo. Concedettegli el fanciullo a Cimabue, menò seco Giotto e fu discepolo di Cimabue. Tenea la maniera greca; in quella maniera ebbe in Etruria grandissima fama; fecesi Giotto grande nell’arte della pictura. […]

Giorgio Vasari riprese nelle sue Vite (1550) la leggenda del giovane Giotto-pastore, scoperto un giorno nella natura mentre disegnava una pecora su una pietra.

“[…] sendo cresciuto Giotto in età di X anni, gli aveva Bondone dato in guardia alcune pecore del podere, le quali egli ogni giorno quando il un luogo e quando in un altro l’andava pasturando, e venutagli inclinazione da la natura dell’arte del disegno, spesso per le lastre, et in terra per la rena, disegnava del continuo per suo diletto alcuna cosa di naturale, o vero che gli venissi in fantasia. E così avenne che un giorno Cimabue, pittore celebratissimo, trasferendosi per alcune sue occorrenze da Fiorenza, dove egli era in gran pregio, trovò nella villa di Vespignano Giotto, il quale, in mentre che le sue pecore pascevano, aveva tolto una lastra piana e pulita e, con un sasso un poco apuntato, ritraeva una pecora di naturale, senza esserli insegnato modo nessuno altro che dallo estinto della natura. Per il che fermatosi Cimabue, e grandissimamente maravigliatosi, lo domandò se volesse star seco. Rispose il fanciullo che, se il padre suo ne fosse contento, ch’egli contentissimo ne sarebbe. Laonde domandatolo a Bondone con grandissima instanzia, egli di singular grazia glielo concesse. Et insieme a Fiorenza inviatisi, non solo in poco tempo pareggiò il fanciullo la maniera di Cimabue, ma ancora divenne tanto imitatore della natura, che ne‘ tempi suoi sbandì affatto quella greca goffa maniera, e risuscitò la moderna e buona arte della pittura, e introdusse il ritrar di naturale le persone vive, che molte centinaia d’anni non s’era usato.(…)”

Condividi l'articolo su:
Maurizio Bernardelli Curuz
Maurizio Bernardelli Curuz