di Enrico Giustacchini
Continua l’inchiesta di “Stile” sul futuro della storia dell’arte e della comunicazione degli eventi all’arte collegati. Stavolta abbiamo incontrato Luciano Caramel. Ordinario di Storia dell’arte contemporanea e Direttore dell’Istituto di Storia dell’arte medievale e moderna all’Università Cattolica di Milano e Brescia, autore di numerosi libri e curatore di importanti mostre, Caramel è tra i maggiori studiosi italiani del settore.
Secondo lei, la civiltà contemporanea sta perdendo il senso della storia? E questa tendenza – se c’è – quanto può incidere sulla storia dell’arte?
Quello che lei chiama il “senso della storia” è sempre stato qualcosa di relativo. Inevitabilmente, come la storia medesima, implica concezioni molto diverse, e addirittura opposte: immanenti e trascendenti, relativiste e finalistiche, cicliche e provvidenzialistiche, materialistiche e spiritualistiche, mitiche ed evoluzionistico-progressive. Il “senso della storia” non può non essere diverso in un ateo e in un credente, in un materialista e in un idealista, eccetera. Se l’oggetto rimane l’uomo e quanto questi ha fatto nella sua “storia”, appunto, l’interpretazione, e quindi l’attribuzione di valore, cambia, persino nel modo di concepire l’aspetto diacronico, quello della successione temporale degli eventi umani, che può conseguentemente essere primario o no, e che in ogni caso può mutare di segno. Premesso questo, credo che ci sia oggi, nei giovani soprattutto, una sempre più diffusa disaffezione per la memoria del passato e per la considerazione dei suoi nessi col presente. Credo anche che ciò sia per gran parte dovuto agli esiti, e agli interni presupposti, della comunicazione elettronica. Che non è asettica, strumentalmente “pura”, ma, divenendo determinante nella trasmissione del sapere, finisce con l’esserlo sulla natura stessa del sapere, come fin dal 1979 riconosceva François Lyotard nel suo “La condizione postmoderna”: un “Rapporto sul sapere”, come l’autore stesso lo definì. Quella condizione comporta il modello sincronico dell’ipertesto, che non può non influenzare i meccanismi del pensiero. Anche nell’ambito storiografico, e, ovviamente, pure in quello storiografico-artistico, che credo non debba rinunciare a quel giudizio di valore che è tutt’uno con il giudizio storico, e proprio nella sua storicità e non definitorietà di cui dicevo. Giudizio storico che certo può trarre grandi frutti dalla tecnologia informatica, senza rinunciare ai suoi caratteri costitutivi, diacronicità compresa. Ma tutto ciò è sempre più difficile farlo capire ai giovani, studenti e anche artisti. Più difficile, ma non impossibile. Almeno lo spero.
Dunque la storia dell’arte è sempre attuale, anche all’inizio del nuovo millennio. E la filologia?
La filologia è uno strumento, essenziale, del giudizio storico. Che della filologia non può fare a meno, come la filologia non può prescindere dal registro storico. La relatività del “senso della storia” è quella della storiografia, dello studio della storia e della sua narrazione. Che tuttavia è – e non può non essere – fondato sulla ricerca e l’analisi oggettiva, filologica appunto, dei fatti, dei reperti, dei documenti. Ricerca, analisi che d’altronde non può a sua volta prescindere dalle coordinate storiche, indispensabili ad una comprensione non parziale del fatto, del reperto, del documento.
Come vede il futuro dello studio e della comunicazione dell’arte, anche alla luce dei nuovi media?
I nuovi media già sono, e sempre più saranno, preziosi per la comunicazione dell’arte. Resta tuttavia sempre essenziale, come per lo studio, il rapporto diretto, non virtuale, non mediato, con la cosa. Specifico dell’arte – salvo che nelle sue espressioni più strettamente concettuali e, naturalmente, in quelle elettroniche, e anche cinematografiche e video – è l’essere, per usare una terminologia semiologica, un messaggio oggettuale, con tutto quanto ne consegue.
Lunga vita alle mostre, quindi.
Me lo auguro. Purché non si appiattiscano sulle aspettative e i profitti dell’industria culturale, sul cui altare molti aspetti preziosi dell’arte, del suo significato possono essere dolorosamente immolati. La mostra è inevitabilmente uno spettacolo, ma non deve esserlo solo, o preminentemente, di se stessa. Anche il piano didattico, di larga informazione, deve avere fondamenti rigorosi, storici, in primo luogo, per tornare a quanto sopra si diceva. Anche per questo non vanno trascurati, o subordinati all’occasionalità delle mostre (magari con prestiti troppo frequenti e rischiosi), i musei, luoghi privilegiati dell’arte e della sua storia.
E che mi dice delle “mostre-pacchetto”?
Bisogna distinguere. Se fatte bene, se la loro progettazione e realizzazione sono affidate a società serie, che utilizzano persone serie e competenti, possono essere positive, anche molto positive. Purtroppo, però, non sempre è così. Tra il grano c’è, ahimè, anche il loglio.
Un’ultima questione: il mercato. Com’è cambiato, come sta cambiando? Le gallerie hanno un futuro davanti a sé?
Siamo in una fase di cambiamenti, anche radicali. Si assiste alle fortune delle televendite. C’è chi si fa, o arricchisce, la collezione via TV. Le gallerie sopravviveranno? Molte no, fortunatamente. Chiuderanno, spero, le molte che oggi offrono prodotti generici e scadenti, o persino svolgono attività di affittacamere per artisti di scarsa qualità o sprovveduti. Resteranno, penso, quelle più specializzate, che propongono opere importanti, anche storicamente, e di alto prezzo (una specie di modernariato, che già del resto accompagna l’antiquariato) e quelle, forse, che ospitano e fanno conoscere i giovani, che più degli altri possono trarre frutto da un rapporto diretto col collezionista, promosso o facilitato dal gallerista. Il futuro non sarà comunque neppure della televisione: prestissimo sarà Internet ad avere la meglio. Le televendite, del resto, si adegueranno. Anzi, già si stanno adeguando.