Giulio Paolini
“Stile” ripropone l’intervista a Giulio Paolini compiuta nel 2001, in occasione della mostra, curata da Giorgio Cortenova, a Verona, Palazzo Forti .
Maestro, è la ricerca dell’immagine, del linguaggio e del segno fine a se stesso a connotare la sua poetica?
Come uno specchio ideale che riflette e rivela le apparenze con cui si costituisce, il mio lavoro si svolge intorno ad un diaframma implicito all’immagine. Si impone cioè un tipo di lettura circolare, anziché diretta: una lettura che sottrae alla visione il valore dell’evidenza, perché la natura di questo artificio tende ad una sorta di “obiettività paradossale” che introduce un’incompatibilità temporale nel presente, nel momento in cui la percezione si attua. Resta la presenza pura di un’opera e della sua verità che, sempre, è estranea a qualsiasi intenzione. L’essere fine a se stesso significa però anche procedere oltre la tautologia, fare in modo che attraverso quei soli strumenti – e cioè pur restando nelle radici del linguaggio – si vada (o si abbia almeno l’illusione di andare) verso qualcosa di nuovo e di diverso.
Perché rivisita immagini o frammenti di storia dell’arte?
La mia è una memoria che vuole attingere al farsi stesso dell’opera. Quando scelgo una creazione del passato – senza aggiungere nulla -, è per nominare, riconoscere e restituire tutto il travaglio che le è proprio. Attraverso un’accoglienza indifferenziata della pittura o della scultura, introduco l’immagine, la colonna, il calco, la falsa profondità per abdicare all’ulteriore. Con ciò ho inteso indicare il punto in cui l’opera “doveva” essere situata. Con le immagini antiche ricondotte in nuovi lavori tento di mettere in gioco lo spettatore e l’autore come polarità.
In che senso lei – che presenta opere di elegante compostezza e classicismo – ha parlato dell’artista come di una “figura instabile” ?
Instabile, proprio nel senso che l’artista può contare soltanto su un “suo” equilibrio. Forse è qualcuno o qualcosa, come una controfigura, che più non applica ma vive la cerimonia della secrezione del mondo, coniuga rivoluzione e discrezione, esige l’assoluto senza saperlo spendere. L’artista è qualcuno che si aggira nel vuoto, senza rinunciare a descriverlo.
Con i concetti – da lei espressi – di “quadro che contiene tutti i quadri” e “tutte le mostre in una” intende riferirsi ad opere ed esposizioni non “a tema”, ma “come tema”?
L’intento è di concentrare in una sola tutte le esposizioni: comprese quelle un tempo previste ma mai realizzate, quelle ancora in fase di progetto, quelle che – pur dichiarandosi tali – non davano per ovvio ed evidente il fatto di esserlo, di presentare cioè delle opere. In altri termini, l’intenzione è di verificare l’atto espositivo quando pone in questione la stessa ragione d’essere (o non essere) dell’evento: dunque non l’esposizione ”a tema”, ma l’esposizione “con tema”. O al contrario – ma non è poi lo stesso? – la volontà è di presentare come una sola opera tutte quelle opere che tendono ad assumere una dimensione più ampia, il carattere e l’aspetto di esposizioni.
I “Sette lavori in sette stanze”, realizzati in trent’anni ed in mostra a Palazzo Forti, costituiscono un itinerario retrospettivo?
Si tratta certo di un percorso retrospettivo, ma anche rivolto ad affrontare il tema che l’evento si prefigge: l’opera che dispone all’osservazione, che si mostra… che diventa essa stessa “esposizione”. Di che cosa? Del nostro sguardo, che, nell’osservarla, oscilla e divaga fino a confondere i due ruoli, dell’autore e dello spettatore, in un solo punto di vista.
Argan, parlando della morte dell’arte come di uno stato della coscienza più che di uno stato di fatto, partì dall’esempio di Fontana per affermare la vitalità del suo lavoro (“…lo sapeva certamente Fontana… lo sa oggi Paolini, la cui opera ha l’esatta specularità di un concetto: identifica il nulla e il doppio, azzera l’oggetto con l’immagine e l’immagine con l’oggetto”). Si considera soddisfatto dell’itinerario percorso sino ad oggi?
Su una certa mia coerenza, o fedeltà alle premesse iniziali, non sta a me esprimere giudizi; né voglio attardarmi in compiacimenti.
Un’ultima domanda. Oggi si discute molto sui musei, sul loro ruolo, sulle loro prospettive. Qual è la sua idea in proposito?
Negli anni dell’adolescenza, una visita al Museo di Palazzo Bianco a Genova mi rivelò, tra qualche solitario visitatore, un universo, chiuso ma anche illimitato. I miei passi nelle innumerevoli sale si susseguivano e incrociavano in un continuo e ininterrotto percorso circolare che, come un labirinto, ritornava su se stesso, mi sottraeva alle abitudini della vita quotidiana per collocarmi in una felice prigione dorata. Oggi i musei mi inducono a cercare, invece, una via di uscita, perché sono architetture d’avanguardia che si limitano ad amplificare canoni plastici stile anni Cinquanta: penso, ad esempio, al nuovo Guggenheim di Frank Gehry a Manhattan, di quaranta piani, dieci volte più grande della rotonda di Wright; oppure, in Europa, al progetto del Museo di Arte contemporanea del Lussemburgo di Pei. Mi sembrano “bravate architettoniche” che non rispettano l’esigenza dell’opera d’arte, che chiede soltanto di esistere, di poter resistere là dove è apparsa e si è manifestata. Esempi di questa condizione privilegiata sono invece la Gipsoteca di Canova a Possagno, i Musei Moreau, Delacroix, Jacquemart-André, l’Atelier Brancusi a Parigi, la Goethe Haus a Weimar, la Soane Collection a Londra…
QUOTAZIONI ED ESITI D’ASTA INTERNAZIONALI DELLE OPERE DI GIULIO PAOLINI
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