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di Gualtiero Marchesi
[D]i quando è la pittura ad interpretare la gastronomia, e non viceversa. L’operazione che ogni mese conduco dalle pagine di “Stile” contempla un suo doppio, un rosario di effigi riflesse, un accattivante itinerario a ritroso. Sono tanti i maestri che mi hanno onorato negli anni della loro attenzione, eseguendo lavori ispirati alle mie creazioni culinarie: da Tadini a Baj, da Hsiao Chin a Munari… Stavolta vorrei parlare di un’altra grande firma, Giorgio Albertini, che si è misurata con la “Seppia al nero”. Gli estimatori di Albertini comprenderanno con facilità perché egli abbia subìto il fascino visivo di tale piatto. L’artista vi ha colto, credo, il senso profondo dell’essenzialità, il valore allusivo di un rigore formale e cromatico che dice di un ruolo significante dell’immagine – sia essa proposta, a-volumetricamente, su di una stoviglia, sia invece elaborata a colpi di pennello su di una tela – proprio in quanto entità autonoma, oltre il ruolo ingabbiato di rappresentazione del reale. Come ha scritto in un acuto saggio Flaminio Gualdoni, “Giorgio Albertini non crede alla sacralità della Signora Pittura; non crede nemmeno alla seduzione fenomenale della fotografia. E’ laico, laicissimo: però le ama entrambe, soprattutto entrambe rispetta: perché ama le immagini”. Un amore che, spiega Gualdoni, funziona così: “Per via di collisione tra due modi di rappresentazione – due modi, beninteso, nella nostra cultura parimenti forti, l’uno per carisma storico, l’altro per impatto mediale -, egli ne abolisce il fattore di determinazione tecnica, ne svuota il valore aggiunto d’attività fabrile, e ci costringe a concentrarci su una sorta di intrigante, e sottilmente perversa, qualità visiva ‘in sé’ dell’immagine, interrogandoci sulla sua capacità autenticamente referenziale e sulle scorie derivanti comunque dall’evocare standard visivi ratificati… E’ un discorso, mentalissimo ma svolto in the matter, sulla somiglianza, sulla simulazione, su quella che un tempo s’andava dicendo intelligenza dell’effetto”. Con Albertini, però, si va più in là. Si acquisisce la convinzione della possibilità di un’indagine, di una classificazione del “repertorio” delle forme pittoriche. Affrancate, è ovvio, da ogni subordinazione. Sciolte dai ceppi del raccontare. Elevate al paradiso dell’arte, che non è specchio, né ricalco del mondo, ma piuttosto libera nomenclatura di entità assolutamente differenti, e assolutamente uniche. Cosicché, aggiunge Gualdoni, “la pittura, per un tempo ancella disciplinata del rappresentare, prende il sopravvento e comincia a rappresentare se stessa, a stendersi con movenze larghe e cantabili di pittura d’azione, ma un’azione dolce, come assaporata, fondamentalmente felice…”. Mi viene il sospetto – osservando dedicato da Giorgio Albertini alla “Seppia al nero” – che non sia poi così distante l’intenzione di base rispetto, ad esempio, ad un gagliardo interprete della natura morta secentesca, il napoletano Giuseppe Recco. Che partì dai Fiamminghi per giungere, dopo aver assunto a dosi da cavallo la medicina lombarda, ad una cifra di piena originalità, per cui la banalità compositiva del trompe-l’oeil veniva travolta all’insegna di un barocchissimo anelito allo stupore. Non è solo il soggetto – proprio la seppia ricorre spesso nelle opere dell’artista partenopeo, accanto ad altre, multiformi creature del mare: pesci, crostacei, conchiglie – a determinare la parentela; comune è, a ben pensarci, il gusto del superamento della mera intenzione mimetica, sia pure nella divaricazione dell’obiettivo finale.
Così, due seppie possono generare un’affinità all’apparenza impensabile. La seppia di Recco, pingue di pigmenti, pulsante di tentacoli attorti; e la seppia di Albertini, fedele al rigore del mio piatto, nel contrasto reciso del bianconero – il letto d’inchiostro, il concavo corpo immacolato -, nelle geometriche danze di iperboli ed ellissi dei contorni, nella sorprendente germinatura di medaglie di cerfoglio, dalle verdi pagine stellate. Entrambe a dirci, ammiccando, di un alfabeto di icone innumeri, un alfabeto quasi tutto ancora da decrittare.