Medardo Rosso e Troubetzkoy influenzati dall’Impressionismo? Divergenze tra Italia e Francia

Luciano Caramel esamina il lavoro del grande scultore, evidenziando l'attenzione per l'attimo psicologico in cui l'umanità rivela più profondamente se stessa. Una maggior attenzione alla psicologia che ai bagliori fugaci dell'impressionismo

Medardo Rosso e Troubetzkoy influenzati dall’Impressionismo, in particolare nelle sculture-ritratto? Ophélie Ferlier lo dichiara apertamente nell’intervista di Treccani channel. Divergenze tra Italia e Francia. Il maggior studioso di Medardo Rosso, Luciano Caramel, aveva sempre rifiutato l’idea che gli echi francesi avessero permeato i lavori dfei nostri scultori. Proponiamo pertanto sia l’intervista alla Ferlier, recuperando un intervendo di Caramel, sulle colonne di stile Arte.

Medardo Rosso (1858-1929), Paolo Troubetzkoy (1866-1938), Auguste Rodin (1840-1917) sono artisti, i primi due italiani, il terzo francese, noti anche per le sculture-ritratto eseguite tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, agli albori di un nuovo modo di carpire le immagini: la fotografia. Quale l’espressione del ritratto moderno, concentrato soprattutto su luce, senso della vita ed espressione dell’anima? Rosso risponde: “Ciò che è importante per me nell’arte è di far dimenticare la materia”; Troubetzkoy: “Quando studio e produco un essere vivente non è la cosa in sé che desidero rappresentare, ma la vita che vivifica e anima tutte le cose ugualmente”; Rodin: “Bisogna che tutti i tratti siano espressivi, ovvero utili alla rivelazione di una coscienza”.

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di Beatrice Avanzi

Luciano Caramel – qui intervistato da “Stile” – è tra i massimi studiosi di Medardo Rosso.

4_1Professore, lei ha contribuito in maniera determinante alla conoscenza dell’opera di Medardo Rosso. Quali sono le novità che emergono dai suoi studi più recenti?
Lavoro attorno a Medardo Rosso da vari decenni. Sullo scultore ho discusso la tesi di laurea nel 1959, e i primi contributi che ho pubblicato sono dell’inizio degli anni Sessanta. Da allora ho sempre studiato Rosso, anche in rapporto a una serie di mostre (la più importante in Italia si è svolta nel 1979 alla Permanente di Milano). E’ ora in preparazione una grande mostra che si terrà nella primavera del 2004 nel nuovo museo di Botta a Rovereto, e poi da settembre alla Galleria d’Arte moderna di Torino, città natale di Rosso. Sto inoltre concludendo il catalogo generale, di imminente pubblicazione presso Electa. E proprio i controlli finali per il catalogo generale permettono dei bilanci: il mio lavoro negli ultimi anni ha portato ad evidenziare alcune cose nuove, relative sia alle opere, che allo sviluppo dell’attività di Rosso. Alcune conclusioni – necessariamente sempre provvisorie – riguardano ad esempio il numero delle opere. Ho potuto vedere come di alcune di esse ci siano molte decine di esemplari. Faccio un esempio: il “Bambino ebreo” avrà nel catalogo almeno una novantina di esemplari buoni, da me controllati, quasi tutti in cera, pochissimi in bronzo. Stranamente un’opera che ha avuto una grande fortuna, più inflazionata, come il “Birichino” (o “Gavroche”), ne ha un numero quasi uguale. Questo perché la maggior parte degli esemplari che circolano sono di fusione postuma o falsi, e quindi non li pubblicherò nel catalogo generale. Ci sono opere invece poco o pochissimo replicate. Di alcune c’è un solo esemplare, come in genere per quelle di destinazione funeraria o per la “Madame X”. Sono riuscito a scaglionare questi esemplari attraverso i decenni, a cominciare dalla data di ideazione negli anni Ottanta o Novanta, e a vedere quindi le differenze non solo di materiali, ma anche di taglio del soggetto. Per esempio, agli inizi dei miei studi pensavo che la “paretina” di fondo che troviamo in qualche esemplare dello “Scaccino” e della “Portinaia” fosse una soluzione iniziale, per dimostrare la teoria di Rosso del “non girare intorno alla scultura”. Invece sono ormai certo che questo avviene solamente nell’attività avanzata dello scultore. Mentre del “Gavroche” gli esemplari più belli – uno a Parigi, ad esempio, e un altro a Torino – sono quelli dei primi anni, ridotti solo alla testa, come una specie di ritratto psicologico, dove risalta l’intelligenza, la furbizia del ragazzino.
A questo proposito, suoi contributi hanno messo in luce alcuni aspetti particolarmente interessanti dell’ultima attività di Medardo Rosso, che dopo il 1906 (anno dell’“Ecce Puer”, estrema creazione) non si dedicò soltanto alla riedizione di alcune opere, ma le rielaborò con esiti originali…
Nel 1914 Rosso torna in Italia per gli eventi bellici. Inizia allora un periodo un po’ oscuro su cui però, almeno in parte, sono riuscito a far luce. Egli ha lavorato molto nell’ultima fase attorno a cere colorate ed anche ad interventi sostanziali su alcune opere, tagliando via dei pezzi, alcuni colorandoli in modo diverso, radicalizzando una pratica che aveva già cominciato prima. Come ad esempio nell’“Amor Materno”, dell’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento, al quale aveva tagliato la testa della madre, procedendo poi con tutta una serie di riduzioni, fino al solo particolare del bimbo che succhia il latte, per superare i rischi di descrittivismo e fare qualcosa di più icastico. Sempre tra le scoperte, o meglio tra le conclusioni di questo lavoro, c’è l’importanza di quelle opere che solitamente non vengono considerate e che Medardo Rosso realizzava fin dall’Ottocento, riplasmando in scala diversa sculture altrui (di Donatello, Michelangelo, Rodin, eccetera), oppure riprendendo dei calchi, dipingendoli, manipolandoli, o facendo lui stesso dei calchi di opere antiche, romane o classiche.
Sono opere che lei ha chiamato “pezzi di paragone”…
Nel passato. Ma quella definizione è riduttiva. Va bene nel senso che Rosso li esponeva accanto alle sue sculture ai Salon per far vedere quanto il suo lavoro fosse diverso e più “importante” di quello degli altri. In realtà, poi, ho constatato, consultando alcuni cataloghi di mostre – ad esempio una personale a Vienna da Artaria con i prezzi appuntati dallo stesso Rosso -, che egli vendeva tali opere insieme alle altre. Le vende ai musei, a Dresda, al South Kensington Museum (ora Victoria and Albert) di Londra nel 1896… Quindi, chiamarli “pezzi di paragone” è riduttivo; l’interpretazione di questo atteggiamento, che rivela tutto un interessantissimo livello di intervento “mentale” di Rosso sulla sua produzione, sarà meglio evidenziata nel catalogo generale.

Un altro aspetto interessante è il rapporto con la fotografia…
Sì, è un aspetto interessante, che in questo momento ha grande fortuna, e che non va, però, enfatizzato. Io continuo a credere che la fotografia abbia avuto un ruolo importante per Rosso, ma diversamente, per esempio, che in un Morbelli o in un Michetti. Più che fotografare direttamente, Rosso interveniva per guidare l’operatore, per indicare l’inclinazione dell’opera, il modo di vederla. Quasi per esemplificare la sua teoria sulla scultura, interveniva inoltre sulle stampe, che tagliava, e, come ho potuto constatare, sulle lastre. Talora “attualizzava” opere più vecchie rendendo meno evidenti i particolari o i volumi. Come del resto fece anche per l’“Ecce Puer”, esaltandone l’aspetto quasi simbolista, accentuando la luminosità che sembra cancellare l’immagine.
Riguardo alla definizione di Medardo Rosso “scultore impressionista”, lei ha parlato di equivoco…
Non ho mai creduto che Medardo Rosso sia stato uno scultore impressionista. A cominciare dagli anni Settanta ci sono stati studi molto importanti sugli anni Ottanta dell’Ottocento e sulla “Scapigliatura democratica”, soprattutto in letteratura, e questo mi ha permesso di capire meglio Medardo Rosso, che faceva parte di quell’ambiente. Certe sue idee, ma anche tutto il significato delle tematiche delle sue opere, sono molto legate alle inclinazioni sociali e al verismo analitico del momento, che lo ha portato su di un registro – parlo del periodo della formazione – tutt’altro che impressionistico. Anche opere ormai pienamente “rossiane”, come la “Portinaia”, del 1883, sono collegate piuttosto ad una certa concezione della luce, che era patrimonio comune della cultura positivistica allora in auge a Milano. L’etichetta di “impressionista” gli è stata apposta a posteriori, dopo che, all’inizio del Novecento, Edmond Claris, partendo dal successo del “Balzac” di Rodin, fece un’inchiesta, appunto, sull’Impressionismo nella scultura. D’altronde, Medardo Rosso è senz’altro sul registro dell’“impressione”. Parla sempre di “impressione” per le sue opere, tranne che per l’ “Ecce Puer” che, secondo la testimonianza di Etha Fles, egli chiamava “Vision de pureté”, forse con un rapporto con il Simbolismo, per Rosso del tutto eccezionale. Si deve, in ogni caso, fare una distinzione tra l’“Impressionismo” sviluppatosi negli anni Settanta dell’Ottocento, e gli “impressionismi” solo latamente a quello avvicinabili. Come appunto lo stesso Rosso, per il quale è fondamentale tener conto di altri aspetti, ad esempio la componente psicologica. Il suo, spesso non è un “cogliere l’istante” in senso fenomenico, ma un cogliere nel volto, nel sorriso, una situazione psicologica. Neppure manca, in Rosso, una componente “espressionistica”. (Febbraio 2002)

 

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