di Gualtiero Marchesi
Ho disteso nel piatto il mantello di una soffice maionese colorata alla clorofilla di prezzemolo. Ho adagiato su questo letto verde, per linee oblique ma parallele, tre filetti di acciuga appena passati al forno, splendidi nei riflessi azzurro-argento. Ho aggiunto una noce di capasanta, nel suo candore un po’ velato dalla doratura. Ed ancora, una cupoletta di riso Venere, bollito, nero come l’ebano. La mia creazione è ispirata ad uno degli ultimi quadri di Mario Radice, maestro tra i maggiori dell’Astrattismo italiano, di cui è aperta in questo periodo un’importante retrospettiva, mentre Electa pubblica il catalogo generale della sua opera. L’una e l’altra iniziativa – di cui “Stile” parla nella pagina a fianco – sono curate da Luciano Caramel. E’ proprio Caramel a sottolineare alcune delle caratteristiche dell’estrema produzione del pittore: a partire da una rilettura profonda, psicologica, del dato geometrico, anche da un punto di vista del rimando estetico, e dall’impiego del colore come medium di stemperamento dei contrasti e delle rigidità dei volumi, in direzione di atmosfere più morbide e familiari. Scrive lo studioso: “Nel 1969 tornano le progressioni di bande rettangolari orizzontali, però anche interferenti con più forme triangolari e ora con elementi curvilinei, che potenziano la relazionalità dell’insieme, dove tuttavia interviene ancora il colore a decantare, o persino a frenare, l’energia delle tensioni. Siffatta sperimentazione della fenomenologia della geometria in funzione estetica, con le naturali implicazioni ottiche e psicologiche, è la novità del Radice degli anni Sessanta, come poi dei Settanta, quando, tuttavia, si assiste, spesso, alla ricerca di una ‘temperatura’ meno vivace. Si fanno strada immagini meno affollate e più essenziali, oltre che unificate da toni del colore in genere uniformi, e alla fine del decennio quasi trasparenti. Documento di una raggiunta serenità interiore che si riflette nella pittura ed è preludio dell’ultima stagione, avvolta da un colore luminoso e caldo, testimonianza, negli anni Ottanta, anche nelle incertezze, di una dedizione trepida e poetica”. Mi sembra di aver rilevato, in questo dipinto – realizzato poco prima della morte – un reimpiego formale delle strutture geometriche in una dimensione più intima e raccolta, in ambito sia cromatico che compositivo. Con un che di ammiccante, di domestico pur nella solidità vibratile che pervade l’opera (e tutte le opere) dell’artista. Né mi ha sorpreso la sintonia subitanea che mi ha condotto alla rilettura del quadro, con un piatto all’insegna di elementi semplici e buoni, di una semplicità e di una bontà primaria, assoluta, condivisa; e sprigionante tinte tiepide e digradanti sino alla perspicuità. Aveva osservato, a proposito di tali caratteristiche della produzione di Radice, Marco Valsecchi: “Ecco, dentro la serrata tarsia, insinuarsi come un soffio, un tenue palpitare di luce che rende più trasparente il colore. E’ una leggera palpitazione che vince la levigatezza marmorea, un fiato d’aria eguale a quello che intiepidisce certe incastellature geometriche o architettoniche dei maestri rinascimentali lombardi: Zenale, Bramantino; e senti che la meditazione del rigore formale non si attenua, ma trova una declinazione di immediatezza lirica, quasi un intimo stupore di aderire, oltre il particolare contingente, a un ordine totale di più sottili realtà e rapporti ideali”. Già, lo stupore di Mario Radice. Quello stupore che, per dirla con Guido Ballo, nasce in segreto dai “passaggi lievemente sfumati”, dalla risonanza cromatica “che ci fa sentire i silenzi, ciò che sta al di là dell’apparenza occasionale”: lo stupore della luce, la poesia del colore fluttuante.