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Compulsivo, ossessionato. Tutto si giocò nell’infanzia. L’ossessione per il cibo, per la bocca; e per l’immagine delle natiche femminili, che si schudono, come nel ritratto surrealista della sorella, mentre lei si autosodomizza. Bocca e ano. E non è necessario riferirsi a Freud per capire come questi due punti furono importanti luoghi a cui il pittore guardò con ammirazione. Il cibo, per Dalì, non è neutrale. Non è un sostentamento, ma un barocco, ricchissimo, esagerato strumento erotico.
“So che sono feroce… assaporo meglio la vita, il sapermi vivo, quando divoro un morto”. Non è la truce battuta di un film horror. E’ Salvador Dalì, in una delle sue deliranti confessioni d’amore per “beccacce frollate, cucinate e servite intere, frutti di mare dalla splendida armatura, crani di uccellini da cui estrarre il midollo”. A sei anni Dalì voleva diventare cuoco. Poi decise per la pittura e si accontentò, da bambino, di spiare quelle donnone dalle mani arrossate che s’indaffaravano in cucina, dove si mescolavano gli “odori dell’uva, dell’olio bollente, delle pelle strappata alle cosce delle lepri, dei rognoni e della maionese”.
Nel 1973 Dalì portò anche a termine e pubblicò un enorme libro di ricette, soprattutto afrodisiache, intitolato: Le cene di Gala. Con questi termini egli non alludeva soltanto alle cene sontuose delle élite, ma soprattutto a quelle ispirate dalla moglie, Gala appunto, soprannome classicista che diede all’intelligentissima, affascinante e autoritaria Elena Ivanovna Diakonova.
L’opera – che fu tirata, preziosamente, in solo 400 copie – presenta 136 ricette, illustrate con le trasfigurazioni tipiche del pittore. L’artista riprende i piatti della tradizione culinaria francese, prodotta dai grandi chef stellati, quando, per il cibo – specifica Dalì nell’introduzione – non si teneva conto delle tabelle dietetiche.
“Se tu sei un seguace di questi soppesatori di calorie che trasformano le gioie di un pasto in una punizione, chiudi il libro”.
Ossessivo, come dicevamo, degno di una delle sue sue fantasmagoriche visioni, il desiderio per il cibo si era lentamente instillato nel suo sangue, attraverso quel legame morboso con la Catalogna, dove si viveva al ritmo delle pulsioni cosmiche “pescando sardine con la luna nuova, mentre le lattughe stanno crescendo fra i meli”. E’ qui, nella piccola regione dell’Empordà, che s’intrecciano in modo acuto la vita e la morte, la passione della Messa e i sacrifici di aragoste, lucciole come collane e pani con cui fare la rivoluzione. Dalì ripeteva che tutte le verità iniziano dalla bocca e si confermano con lo stimolo viscerale: “La mia pittura è gastronomica, spermatica, esistenziale”. Nulla di più chiaro, e conciso, con cui descrivere le proprie pulsioni, anche creative, poteva essere detto. Basti pensare a quanto accadde ai suoi quadri: uova fritte al tegamino – senza tegamino – penzolanti da cucchiai surrealisti; pani sodomiti, rivoluzionari o sentimentali; costolette d’agnello che ammiccano dalla spalla nuda di Gala o che “firmano” l’autoritratto dell’artista: telefoni a forma di astice o coperti da sardine fritte; orologi molli, sensuali, pronti a segnare una “Memoria persistente”, come il gusto intenso del Camembert leggermente sciolto al caldo estivo.
Nel cibo erano racchiusi il mistero della nascita, il desiderio di amore, la paura della morte e del silenzio, il travaglio della creazione artistica, sacro e conturbante come l’atto di nutrirsi. Così era nata la teoria dell’uovo intrauterino: il lucidissimo ricordo che Dalì diceva d’avere della propria vita nel ventre della madre che coincideva, nella sua mente, con l’impressionante visione di due uova fritte, che si muovevano grandiose e fosforescenti, oscillando insieme a lui nel liquido amniotico. Poi era arrivata la teoria del “pane rivoluzionario”, da cuocere e abbandonare, da cuocere in filoni enormi e abbandonare lungo le strade e nelle piazze per sconvolgere la gente, distruggere le logiche consuete e invertire i sonnolenti sistemi della società borghese. “Pane aristocratico, estetico, raffinato, fenomenale e iper-vedente”, dichiarava Dalì, euforico: poco importa se, alla fine, si era limitato a girare con una discreta pagnotta di due metri di diametro per le strade di New York, sino a quando, esasperato dall’indifferenza della gente, decise di buttarlo via.
Con uova e ricci di mare, aveva conquistato l’amore di Gala, strappandola a Paul Eluard; con gelatina madrilena e piccioni arrostiti aveva festeggiato il suo primo giorno da dandy; con pane e uova avrebbe sfidato la morte, adornando le facciate e i cornicioni del suo esuberante Teatro-Museo a Figueres. Fu qui che Dalì visse negli ultimi anni, solo e ultraottantenne, protetto dalle sue materne uova intrauterine e armato di pane rivoluzionario contro l’oblio del futuro.
Per saperne di più:Marina Cepeda Fuentes, “Il Surrealismo in cucina tra il pane e l’uovo”, Torino, il Leone verde edizioni.
LA RICETTA
Uova, cervella e petali di rosa:
ecco la frittata preferita da Dalì
Ingredienti per quattro persone: 1 rosa, le cervella lessate di un maiale, 4 uova, olio di oliva, 1 cipollina, sale, pepe.
Per la salsa: o,25 lt di vino dolce, 2 cucchiai di zucchero, miele, mandorle, la corolla della rosa.
In un tegame far cuocere per cinque-dieci minuti il vino dolce e la corolla della rosa con due cucchiai di zucchero e due di miele. Nel frattempo preparare un trito (picada) con un po’ d’olio e un pugno di mandorle. Quando la picada sarà pronta, aggiungervi il vino dolce che è stato precedentemente cotto. Sbattere le uova in una terrina con sale e pepe e incorporarvi la cipollina soffritta, i petali di rosa tagliati con le mani (altrimenti anneriscono) e le cervella lesse a fettine. Regolare di sale e fare una frittata in una padella antiaderente. Dividere la frittata in due e servirla in un piatto, mettendo al centro la salsa di vino e alcuni petali di rosa fritti.
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