di Silvia Pegoraro
[E]ntro pochi decenni, probabilmente un’altissima percentuale di opere d’arte contemporanea sarà perduta. Si ha spesso l’impressione che l’opera d’arte contemporanea, in quanto “nuova”, debba essere “sicura”, debba presentare meno problemi di conservazione e restauro rispetto a quella antica, quindi “vecchia”. In realtà, i materiali delle opere d’arte del XX secolo sono “nuovi”, ma non sono affatto sicuri, perché non sono stabili, e ciò proprio a causa della loro modernità: il processo di invecchiamento non è ancora terminato, e spesso non si conosce ancora il comportamento nel tempo di alcuni materiali scoperti in epoche recenti o recentissime. Si tratta di materiali perlopiù estranei alla tradizione artistica occidentale, non sufficientemente sperimentati e collaudati, alterabili e deperibili, soggetti a reazioni chimiche difficilmente controllabili: carte industriali, colori acrilici, colle e resine, varietà di plastiche, materiali naturali igroscopici, fragili e friabili.
Nuovi materiali e futura conservazione: un problema che esisteva già ai tempi di Leonardo
Frank Preusser, ricercatore al Getty Conservation Institute di Marina del Rey (Los Angeles), paragona i problemi inerenti l’arte contemporanea a quelli che affliggono l’arte etnografica, in gran parte incapace di resistere alla prova del tempo. Secondo lo studioso americano, l’artista moderno, come quello dell’Africa e dell’Oceania, usa materiali che ha facilmente a disposizione, come le vernici che si trovano in commercio o materiali di recupero. La frequente incompatibilità dei materiali e l’ignoranza da parte dell’artista della loro composizione chimica o delle reazioni future a lungo termine, sono i principali fattori che portano al deterioramento delle opere d’arte contemporanea. Si potrebbe osservare che questo non è un problema legato esclusivamente alla nostra epoca: ad esempio, l’introduzione dei pigmenti oleosi in epoca rinascimentale, prima nella pittura fiamminga, poi in quella italiana, creò gravi problemi di conservazione. Leonardo trattava la pittura a olio in modo sperimentale. Solo quando gli artisti acquisirono una maggior familiarità con il mezzo fu possibile sviluppare con successo metodi di conservazione adeguati.
Eppure, nel contemporaneo, la varietà di materiali usati e, nello stesso tempo, le poetiche incentrate sull’idea dell’“effimero” e della preminenza del pensiero dell’artista sul “corpo” dell’opera, hanno determinato una situazione ben più difficile e complessa. Già nell’Ottocento si avviarono profondi rivolgimenti tecnici, ma la grande rivoluzione tecnologica nell’arte si verificò con le avanguardie del primo Novecento. Le novità estetiche che gli artisti dell’epoca introdussero nelle loro riflessioni comportarono radicali innovazioni tecniche: la ricerca del nuovo è uno dei cardini delle poetiche dell’avanguardia. Spetta ai futuristi italiani il merito di avere per primi teorizzato la necessità di questo cambiamento tecnologico. Fra loro, il più interessato alla sperimentazione di nuovi materiali è Enrico Prampolini, primo ad usare, per “dipingere”, particolari impasti “polimaterici” di sabbie e polveri: un vero precursore della “pittura materica” degli anni Cinquanta. Le opere del suo più illustre esponente in Italia, Alberto Burri – in particolare i “Cretti”, in caolino e vinavil – sono esposte a un fortissimo rischio di degrado. Anche per i materiali dell’arte si può dunque fissare intorno al 1905-1915 un chiaro “salto tecnologico” rispetto alla tradizione ottocentesca. Una seconda cesura si deve individuare subito dopo la seconda guerra mondiale, con l’introduzione di materiali industriali modernissimi: vari tipi di plastica, colori acrilici e vinilici. Il terzo momento di rottura, negli anni Sessanta, ancora una volta di natura sia estetica che materiale, ha portato rivolgimenti così radicali da porre in dubbio l’identità stessa dell’arte: molte opere sono il prodotto di poetiche in cui è esplicitamente enunciato il carattere effimero e transitorio dell’“oggetto” d’arte, che perciò è pensato come rapidamente transeunte, destinato in breve tempo a consumarsi e scomparire, e quindi volontariamente realizzato con materiali deperibili. Sarà dunque lecito intervenire per la conservazione di un’opera d’arte programmata dal suo autore per scomparire? Questo problema, pur essendo estremamente attuale, non ha trovato, nonché soluzioni, neppure un’adeguata attenzione.
Con l’abbandono dei canoni accademici la tecnica si fa personale. Le gocce di Pollock e i tagli di Fontana
Come i confini tra le varie arti sono venuti cancellandosi, così è stato anche per le distinzioni nette tra i vari materiali. Tutto ciò ha provocato danni incalcolabili in un breve periodo di tempo, anzi pericolosamente più breve se paragonato ai tempi di degrado propri delle opere del passato. D’altra parte, nella creazione artistica del Novecento, come si è detto, il materiale è spesso subordinato all’“idea”, ed il risultato artistico è legato all’uso improprio del materiale stesso. Oggi non esiste più una tecnica “ortodossa”, canonizzata in qualche modo o dalla tradizione di bottega o dalla norma dell’Accademia. Entro questa ortodossia, l’artista del passato realizzava i suoi lavori, modificando, spostando, talora stravolgendo i canoni tradizionali, ma facendo pur sempre riferimento ad essi. Ogni artista del XX secolo ha invece una sua tecnica personale, il più delle volte non trasmissibile. In molti casi la tecnica si identifica addirittura con l’artista (il dripping per Pollock; i tagli e i buchi per Fontana; i monocromi per Klein, ecc.). Spesso l’artista non ha imparato la sua tecnica in una scuola d’arte, e così non potrà a sua volta trasmetterla. Nel caso di materiali industriali non poteva esserci scuola, perché quei materiali non avevano alcuna tradizione di uso artistico (colori acrilici) o erano di recentissima invenzione (vari tipi di plastica).
Oltretutto, l’industria ha in genere cercato di proteggersi dall’imitazione dei concorrenti non fornendo informazioni complete sui suoi articoli: da ciò deriva la mancanza di notizie scientificamente certe su molti materiali. Nel caso dei materiali naturali, il ragionamento estetico porta l’artista alla realizzazione di un prodotto totalmente lontano dall’oggetto quadro o scultura. Nell’opera d’arte saranno immessi, anche per diminuirne l’aura museale (l’aspetto di cose destinate all’eternità) i materiali più umili e fragili (si veda tutta l’Arte Povera, Beuys, Paolini…). Dunque, in epoca contemporanea, anche l’artista tecnicamente più preparato non ha alcun reale controllo sui materiali che usa – compresi quelli tradizionali -. Questo non significa necessariamente che i dipinti a olio di Picasso o di Morandi siano più fragili di quelli di Tiziano o Rembrandt: semplicemente essi pongono problemi di conservazione diversi. Altrettanto complessi sono i problemi delle opere contemporanee realizzate con tecniche neo-antiche: si pensi agli pseudo-affreschi di Sironi o alle tempere di De Chirico. L’artista contemporaneo raramente ha potuto, o ha voluto, usare correttamente le tecniche a lui note attraverso i trattati antichi (Cennino Cennini, Vasari, ecc.). Più spesso ha modificato o distorto i procedimenti tradizionali, o per meglio adattarli alla propria poetica individuale, o per l’impossibilità di trovare materiali in uso nel passato, o ancora per incomprensione o fraintendimento di alcuni principi tecnici fondamentali, talora descritti ambiguamente nei trattati.
Non può comunque reggere una troppo facile equazione: le tecniche innovative (materiali industriali/materiali naturali) stanno all’arte d’avanguardia come le tecniche pseudo-tradizionali e neo-antiche (materiali “tradizionali”) stanno all’arte tradizionale. Picasso, ad esempio, è stato un grande innovatore con i collage e gli assemblage cubisti, ma altri momenti rivoluzionari della sua arte si sono risolti entro i canali di tecniche ortodosse. Le opere moderne e contemporanee eseguite nel modo più tradizionale su tela o tavola possono essere fragili e difficili da conservare come quelle tecnicamente innovative. A questo proposito si potrebbe citare il caso – particolarmente tragico – dell’opera di Mark Rothko. Alla grande mostra del Guggenheim Museum di New York nel 1978 erano presenti molte opere assai rovinate: alcune superfici erano letteralmente butterate e vaste aree cromatiche erano scolorite o avevano cambiato del tutto colore, a causa delle reazioni di pigmenti chimici usati dall’artista. Lo studio approfondito della tecnica e dei tipi di pigmento adottati da Rothko – condotto a partire dal 1987 soprattutto da Carol Mancusi-Ungaro, conservatrice della Cappella Rothko a Houston – ha permesso in molti casi di migliorare sensibilmente lo stato dei dipinti.
Quando il degrado è un “amico” dell’opera. Le nuove frontiere della filosofia del restauro
E’ certo comunque che le questioni a cui si è accennato coinvolgono non solo la coscienza e la professionalità del restauratore, ma anche l’ambito critico-storico. Le nuove tecniche pittoriche e i materiali “insoliti”, insieme a un’estetica rivolta all’espressione artistica concreta, ma solo temporanea, o che considera l’invecchiamento e il degrado come positivi segni caratteristici, fanno dell’arte contemporanea un’affascinante questione anche per il ricercatore, il critico, il teorico, lo storico dell’arte. E’ importante dare spazio all’elaborazione di una base teorica, elaborazione che al momento è più urgente di quella relativa all’arte antica. Per determinate opere contemporanee, infatti, ciò che è effettuabile tecnicamente può non essere accettabile ideologicamente. La sensibilità per l’intenzione artistica diventa in questi casi più importante che non la conoscenza della tecnica e dei materiali.