di Claudio A. Barzaghi
Quante volte durante la visione di un film ci siamo chiesti dove fosse l’orchestra che suona in quel momento sottolineando un passaggio drammatico? E per farci contenti, il regista –attore Mel Brooks nel film Alta tensione la fa entrare in scena a bordo di un pullman.
Parodiando il grande Hitchcock e sciogliendo al contempo una tensione, visualizza proprio gli esecutori della musica.
Spesso qualcosa interferisce anche con le foto in posa, soprattutto se di gruppo, e alcuni sguardi sfuggono alla centralità della posa medesima, quando non è un’intera espressione facciale a risultare difforme rispetto all’insieme. Distratti da un rumore improvviso o da una luce? Oppure qualcuno ha chiamato? Non lo sapremo mai.
Alle volte anche in pittura si verifica una situazione simile, e nella scena – altrimenti omogenea dal punto di vista compositivo e narrativo – irrompe invisibile un elemento di incoerenza, un elemento esterno alla scena ma che qualcuno all’interno segnala e rivela grazie al proprio comportamento. Qualcosa è successo, ma cosa? Difficile a dirsi, anche nella vita di tutti i giorni c’è chi guarda la Luna e chi il dito che la indica, ogni manifestazione è a sé stante.
Facile, però, nel caso della bellissima Annunziata di Antonello da Messina [fig. 1], azzardare un’ipotesi convincente e verosimile: Maria è quasi certamente distolta dalla lettura dall’arrivo dell’angelo, prima ancora che dal suo stupefacente annuncio. E infatti, la sua mano accenna un segno di benvenuto mentre gli occhi ci dicono con chiarezza dove si trova l’inatteso ospite. Antonello coglie l’attimo.
E così, forse, Cecilia Gallerani, in posa per la Dama con l’ermellino di Leonardo [fig. 2], mentre il busto resta rivolto a sinistra, con la testa si volge a destra verso chi sopraggiunge nella stanza, e la direzione è la stessa della luce che le inonda il viso. Solidale nel gesto è il piccolo animale. Forse entrambi accolgono il Moro in persona, il supposto amante di lei. Può essere, ed è stato ipotizzato.
Ma a chi stanno dando retta i due piccoli bambini ai piedi della bara, con indosso lo stesso ruvido panno del Santo in primo piano, nel Funerale di San Bernardino (Basilica dell’Ara Coeli a Roma) eseguito dal Pintoricchio [fig. 3]? In altri termini, chi al di fuori del quadro attira la loro attenzione inducendoli a quel comportamento e a quella mimica di volti e gesti; e in particolare, cosa chiede loro dato che il riccioluto a sinistra sembrerebbe rispondere indicando il compagno?
Noi sappiamo che le figure effigiate in un’opera sono complici di una strategia discorsiva elaborata dall’artista con lo scopo, ovvio, di ‘rappresentare’ qualcosa e/o qualcuno, ma un’opera non si limita a questo. L’altro scopo perseguito è indurre l’osservatore ad ‘agire’ comunicandogli un’emozione (in un certo senso incoraggiando il passaggio dal vedere al percepire, dall’essere al fare). All’aspetto che si vuole assertivo e dichiarativo in un’opera si associa, infatti, anche quello performativo: “Le immagini non ci comunicano solo un sapere, trasmettono doveri e poteri: ci fanno desiderare, indignare, rifiutare, agiscono su di noi e ci fanno agire” (Elisabetta Gigante).
E per riuscirci, in alcuni casi si dilata intenzionalmente il mondo chiuso della rappresentazione pittorica, spalancando quello virtualmente infinito dello spazio che ospita l’osservatore, implicandolo e coinvolgendolo.
Il procedimento è evidente quando una delle figure dall’interno ci fissa e sembra rivolgersi direttamente a noi per interloquire, come scrive Leon Battista Alberti nel Della pittura: “Et piacemi sia nella storia chi admonisca et insegni ad noi quello che ivi si facci, o chiami con la mano a vedere o con viso cruccioso et con li occhi turbati minacci, che niuno verso lor vada; o dimostri qualche pericolo o cosa ivi meravigliosa”. Ma lo stesso espediente si fa, invece, più ambiguo e sfumato quando non siamo noi spettatori i destinatari ‘diretti’ dell’interlocuzione, e cioè quando una differente intenzionalità si appalesa negli sguardi dei personaggi, senza la possibilità di individuare una fonte diretta oppure uno scopo univoco. Tuttavia sempre di emozione indotta si tratta.
Senza ombra di dubbio è gioioso – e questo dovrebbe trasmettere – il moto del piccolo Gesù messo in scena da Paolo Uccello nella Madonna col Bambino [fig. 4], dove il bambino si protende, fin quasi a staccarsi dalla madre, mentre la Madonna , più misurata e composta (preoccupata solo di tenere ben saldo il piccino), si limita ad assecondare l’azione con la direzione dello sguardo, senza però tradire una precisa emozione.
Insomma, c’è dell’altro in un’opera, ed è paradossalmente al di fuori di essa, lì dove accade qualcosa che poco ha a che fare con il soggetto principale, ma è egualmente degna di interesse se induce qualcuno tra i figuranti ad andare con lo sguardo dall’interno all’esterno, e quindi in altra direzione, di minor peso e importanza, rispetto alla focalizzazione principale. Nonostante il carico di enigmaticità, comunque un fenomeno interessante, soprattutto per noi osservatori invitati a interrogarci seguendo la direzione alternativa.
Così, ne L’aquilone del Goya [fig. 5], mentre i baldi e festanti personaggi in primo piano guardano tutti verso il cielo dove volteggia l’aquilone, un bastian contrario cerca dell’altro nella direzione esattamente opposta, e accostando una mano alla bocca sembra lanciare la voce, probabilmente per richiamare l’attenzione di qualcuno a noi ignoto.
Alle malie dell’altrove non sfuggono i santi, neppure il Sant’Agostino della Pala Portuense di Ercole de’Roberti; e lo stesso Cristo, come ben illustrato dal Carpaccio nel Cristo benedicente tra quattro apostoli, tradisce un interesse estraneo alla gran parte delle rappresentazioni che lo vedono in posizione frontale compiere con le mani i medesimi gesti.
A quanto pare, almeno per questi autori, l’emozione dello spettatore deve potersi generare immaginando anche altro rispetto al palesemente esibito, e questo plus di senso sembra chiamare in causa ciò che Louis Marin ha definito l’opacità di un’opera, ‘opacità’ intesa come il lavoro eseguito dall’artista sulla componente riflessiva e metapittorica del dipinto, in pratica il lavoro svolto per rivelare la natura artificiale (“questo l’ho fatto io, e guarda cosa ti combino con le mie mani e con la mia testa”) di ogni opera, anche se descrittiva e scrupolosamente realistica nei tratti più evidenti.
Il distogliere qualcuno dei personaggi da una posa data (dandogliene un’altra) e l’interferire con una narrazione precisa e spesso arcinota, configurano così la possibile esistenza anche di un’altra storia, oltre alla principale, sulla quale l’artista, e solo lui, può invitare a soffermarsi. Si tratta di indizi del lavoro svolto dall’artista nel segno della costruzione della propria figura professionale per mezzo della riflessione (di tipo teorico) sulla propria disciplina e poi, coerentemente con l’obiettivo dell’autoaffermazione, di segni della cura destinata alla ‘costruzione’ della mentalità dello spettatore cooperante che di questo lavorio è destinatario e fruitore.
“Toh, guarda là!” sembra dirci la seconda ancella alle spalle di Salomè, quella un po’ in ombra sulla sinistra, mentre nell’opera Salomè con la testa di San Giovanni Battista di Guido Reni [fig. 7] guarda qualcosa che non è la sua padrona (come fa la sua vicina) e neppure la testa mozza in bella mostra e piena luce sul vassoio, in definitiva non guarda il vero (ma evidentemente non il solo) polo di attrazione. O, almeno, quello sul quale dovrebbe esercitarsi ed eccitarsi massimamente l’emozione dello spettatore.
Insomma, in opere come queste l’invisibile, il non dicibile, perché altrimenti collocato, non ha nessuna intenzione di rimanere inespresso, e si insinua per modificare la grammatica e la pragmatica del nostro vedere.
Intanto anche il giovane Giovanni Battista guarda – nella Adorazione del Bambino con San Giovannino di Filippino Lippi – al di là dello stipite della “finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto” (ancora Leon Battista Alberti), ciò che nell’opera non si mostra eppure calamita il suo sguardo, e con il suo il nostro. Mentre un’ancella ‘distratta’ rimane incantata, quasi rapita, non dalla piccola Vergine appena nata e accudita alla sua sinistra – in quel capolavoro di complessa impostazione che è la Nascita della Vergine del Beccafumi [fig. 8] –, ma da qualcosa che solo lei sembra scorgere all’interno di quella intensa luce dalla quale viene investita in pieno (che lei intercetta ma a lei non destinata), ricevendone in cambio un rilievo assai particolare nell’economia del quadro.
Perché? Forse parte della spiegazione risiede nella complessità polisemica di un’opera d’arte, nel suo essere sempre un’operazione intellettuale, e non la mera registrazione della realtà o la pedissequa restituzione di un episodio: natura e storia in pittura non si limitano al solo rappresentato e al misurabile. In un certo senso una piccola ma significativa manifestazione di insoddisfazione nei confronti della perspectiva artificialis, intesa come sistema unico e coerente di rappresentazione, come modo esclusivo di guardare e restituire il mondo. Senza dimenticare il già sottolineato bisogno di autoaffermazione da parte dell’autore che allo scopo sfrutta ogni opportunità per lavorare sui margini di senso lasciati incustoditi. E così facendo un po’ ci turba.