di Federico Bernardelli Curuz
[L’]interesse per il mondo naturale, per la ricerca scientifica e, d’altro canto, in chiave misterica, l’analisi dei grandi nodi insoluti dell’universo sono solo alcuni dei temi che caratterizzano l’eclettica età barocca che fluisce in direzione del pensiero razionalista e del periodo pre-illuminista.
E uomo del suo tempo è il bolognese Giuseppe Maria Crespi, nato nel 1665, che diventerà uno tra i più importanti artisti del diciottesimo secolo, sempre in direzione di quella pittura della realtà che esamina il mondo, anche quello minuto, con l’intenzione di documentarlo. Punto di forza del suo talento è sicuramente il percorso artistico corroborato da autorevoli confronti, a partire dall’osservazione delle opere dei Carracci, concittadini del Crespi, per poi passare ai pittori veneti cinquecenteschi, continuando con il “Cavaliere calabrese” Mattia Preti e soffermandosi infine sull’attenzione al piano della realtà da sempre dimostrata dai fiamminghi.
Oltre ad un dinamico arricchimento stilistico, il Crespi denuncia un altrettanto intenso interesse per uno scandaglio di matrice naturalistica che rasenta la precisione richiesta dalla rappresentazione del dettaglio scientifico. Un esempio di quest’occhio che si esercita nella lettura della realtà è la tela Pianta di Aloe, nella quale, soggetto centrale della scena, realizzato con colori scuri e corposi, è appunto la pianta originaria del Capo di Buona Speranza, rappresentata con assoluta fedeltà.
L’incisione latina che compare sul parapetto sul quale poggia il vaso, introduce l’osservatore alla scena, con la precisione di un cartellino museale: “Aloe Mucronato, dalla foglia florida, dal fusto degenere. Questa pianta, coltivata in vaso, nella campagna bolognese e nel giardino del consultore Benacci, senza fiori per circa quarant’anni, sul far della primavera dell’anno 1718, cominciò, sparendo le foglie lunghe cinque piedi, a buttare un grosso fusto che, raggiunta nello spazio di due mesi l’altezza di tredici piedi e nove once, emise alla sommità rami posti in ordine insolito e carichi di gialli fiori monopetali multífidi all’estremità. Caduti questi, le capsule seminali, dopo un modesto incremento, morirono insieme alla pianta”.
E’ una descrizione analitica che ben figurerebbe in una galleria di botanica e che presagisce quell’interesse enciclopedico che sarebbe divenuto il motore macroscopico dell’Enciclopedia di Diderot e D’Alambert.
L’aloe mucronato deve il suo nome a mucronatus, un “latinismo usato nel linguaggio scientifico parlando di corpi conformati a guisa di spada, o pugnale, o simil cosa terminante in punta, quale, per esempio una foglia che finisca con spina”, secondo la definizione del Vocabolario etimologico della lingua italiana.
Questa pianta – che, come molte altre provenienti dalle colonie olandesi in Sud Africa, venne introdotta attorno al Settecento per soddisfare la tendenza all’“esotico” imperante in quegli anni – ha da sempre incuriosito l’uomo, ed in molte popolazioni antiche ha assunto differenti significati simbolici; gli Egizi, ad esempio, la ritenevano immortale e, proprio per questa caratteristica, gli oli e le essenze, ricavati dalle sue foglie, venivano utilizzati per imbalsamare i cadaveri dei faraoni; per i Greci l’aloe era invece simbolo di fortuna, salute, bellezza e pazienza; i Tuareg erano soliti impreziosire gli ingressi delle proprie abitazioni con questo fiore, che chiamavano “giglio del deserto”. Lo stesso Crespi rimase affascinato dall’eleganza e dalla possanza della pianta, in grado di superare i quattro metri di altezza (come riportato nell’incisione del dipinto), e dalla particolarità di fiorire una sola volta in quarant’anni per poi morire a causa dell’intenso ma inevitabile sforzo di rigenerarsi e di eternarsi nella propria discendenza.
Alcuni storici hanno evidenziato, sottolineando questa inclinazione vegetale messa in luce dal pittore, una possibile valenza simbolica del quadro, che si legherebbe all’esistenza stessa del proprietario della pianta, divenuto “padre soltanto in età avanzata”, proprio come l’aloe raggiunge il principale scopo della sua vita in coincidenza con il termine della stessa. Tale ipotesi viene però scartata dalla studiosa Anna Maria Matteucci, la quale sostiene che “dovette invece trattarsi di un interesse scientifico, tipico dell’età, nella patria di un Aldrovandi e di un Malpighi, a dettare l’inconsueta iconografia dell’opera”.
Ma non ci sentiamo di escludere del tutto che il consigliere avesse accolto con estrema felicità la coincidenza di entrambi i segni, come benevolenza celeste. E sovviene, a proposito, un Carducci di là da venire: “Tu fior de la mia pianta percossa e inaridita, tu de l’inutil vita estremo unico fior”.