Un filo sottile e misterioso lega due artisti di Vinci: Pierino e il grande Leonardo. I rami dell’albero genealogico indicano che l’uno è nipote dell’altro. Pierino è figlio di Bartolomeo e Bartolomeo è fratellastro, più giovane di 45 anni, di Leonardo. In omaggio a ser Pietro, capostipite della casata di Vinci, il padre aveva battezzato il bimbo Pierfrancesco. Poi, alla spiccia, era diventato Pierino. Del grande Leonardo si sa tutto; del nipote quel tanto che dicono le opere note, interpretate da chi ha avuto volontà di studiarlo. Fu geniale ma sfortunato: una febbre malarica, portandolo al cimitero nel 1553, a 23 anni, ne spezzò l’ascesa. Le sculture lasciate dall’artista, morto in Pisa dopo un estenuante viaggio da Genova “per acqua e in ceste”, ci concedono di rimpiangere la fortuna che non ebbe. Sapeva modellare, era sublime nelle proporzioni, trattava la pietra come burro. Con lo scalpello o il trapano, aveva la delicatezza del grande chirurgo con il bisturi o il laser.
Creava figure affascinanti (Bacco e Pomona, il giovane reggiurna) e di grande sensualità. Plasmava forme ora drammatiche (Ugolino), ora ironiche (Puer mingens o il satiro che insidia il flautista Olimpo). In lui c’erano impronte leonardesche che sembravano perse, con la morte del genio, 19 anni prima della nascita del nipote. Forse anche le particelle cromosomiche scorrono sotto terra, come fiumi carsici e riaffiorano in superficie all’improvviso, imprevedibili. Pierino, ammirando le opere dello zio (suoi disegni erano nell’ospedale di Santa Maria e c’erano frammenti della battaglia di Anghiari), ne respirò il profumo. E le idee e le concezioni di Leonardo si trasfusero e sedimentarono nel nipote. Aiutarono certamente le poche lezioni del Bandinelli, suo primo maestro, alla cui bottega lo aveva affidato papà Bartolomeo.
E messer Baccio era ammiratore di Leonardo. Gli aveva pure copiato un angelo con una irripetibile cascata di riccioli dal capo. Forse altre reminiscenze sarebbero emerse, se Pierino non avesse preferito le grinfie del Tribolo a quel Bandinelli dal brutto caratteraccio, con il quale proprio non c’era feeling. Non manca chi spiega l’afflato fra Pierino e lo zio Leonardo, rifacendosi al padre. Orecchiando un’empirica genetica, Bartolomeo si era persuaso che il genio del fratello poteva ripetersi nel figlio. E non si stancò di ammaliare con racconti edificanti la giovane moglie, durante la gravidanza, e Pierino dall’età in cui poteva capire le storielle. Leggenda? Forse. Ma è certo il fatto che Pierino continuò a rendere omaggio a quello zio che non aveva conosciuto, il cui spirito, comunque, era presente sia in casa che nel mondo artistico fiorentino. Al punto che Pierino dovette tener conto, come dimostriamo, degli esiti di grande morbidezza e forte capacità introspettiva raggiunti dallo zio nella delineazione pittorica dei volti. Vero è anche che Baldassarre Turrini, ordinando al giovane il sepolcro, gli mostrò orgoglioso due quadri di Leonardo, ora perduti. Uno raffigurava un giovinetto “bellissimo a guardarsi”; il secondo una dolcissima “Nostra Signora”. Quando, a suo tempo, Pierino creò l’angelo della morte che regge l’urna accanto al sarcofago, liberò dal marmo un bellissimo giovane. Ricorda per intensità tanto il San Giovanni Battista dello zio quanto la testa di fanciulla, attribuita a Leonardo dal Venturi, visibile a Parma (Galleria nazionale). Figura forte, androgina, tremendamente sensuale.
Non bastasse c’è una inquietante figura femminile attribuita a Pierino. La conserva il museo di Berlino. Carlo Pedretti la legge come la versione scultorea della Leda tratta da Leonardo. Impressionante l’avvitarsi del corpo, la sinuosità, la morbidezza, la testa reclinata. La gamba sinistra, appoggiata su un vaso che fa da gradino, appena sollevata, sembra far schermo alla nudità. E ancora: confrontiamo naso e labbra di monna Lisa del Giocondo con labbra e naso del San Giovannino di Pierino. Pare che l’enigmatica signora (o giovinetto?) sia la gemella del santo. Osserviamo ancora il San Giovannino e quel disegno leonardesco conservato al Kunsthalle di Amburgo. A chi ha rubato profilo, occhi e riccioli femminili il nostro Pierino? Allo zio Leonardo, sconosciuto ma incombente come fantasma. Come fu possibile l’influsso? Semplice: forse Pierino vide il “bellissimo fanciullo” di Leonardo nella casa di Pescia dei Turrini. Chiome così fluenti e leonardesche hanno poi Sansone e il Filisteo e il giovane divo fluviale. E ancora: il puer mingens, la donna che versa vino, i satiri, Bacco e Venere. Insomma: non scordiamo il monito di Carlo Pedretti: “Conclusioni un po’ affrettate e superficiali potrebbero presentarci Pierino da Vinci come avulso dall’illustre ceppo di famiglia…”. Certo questi segnali ci allontanano dal periodo, fra il 1545 e il 1548, quando Pierino da Vinci, ragazzino, col Tribolo, lavorava alle fontane di Castello ed esprimeva il meglio della sua fantasia giovanile. Aveva finalmente pietra da sbozzare.
Non doveva accontentarsi – parole del Vasari – di fare “fantaccini di terra”. A bottega aveva “cominciato a pigliar pratica in su’ ferri” e mastro Tribolo dopo avergli chiesto “un mazzocchio ducale di pietra” per Messer Pierfrancesco Riccio aveva preso a portarlo con sé. Un giorno, schizzata una fontana per il Labirinto, gli aveva chiesto di realizzare un marmo alto un metro e mezzo, simile a un grande candelabro decorato, con putti seduti su mensole aggettanti, fronde grandi, motivi decorativi diversi. Avendo l’allievo lasciato a bocca aperta il maestro, vennero, uno dopo l’altro, più incarichi, fra cui “un fanciullo che stringe un pesce che getta acqua per bocca, per le fonti di Castello”. Aveva 17 anni quando Pierino ritenne opportuno di staccarsi dalla bottega di Nicolò Pericoli detto il Tribolo e imboccare la propria strada. Che abbia camminato con le proprie gambe proprio non si può dire, vista l’ala protettrice di Luca Martini. Ma questo non conta. Accanto al mecenate c’era il piccolo genio. E senza l’intelligente consigliere del Duca oggi Pisa non avrebbe la statua in travertino della Dovizia, alta circa due metri. Era il duca Cosimo intento ad abbellire la città e creata una grande piazza aveva fatto alzare al centro una colonna “alta dieci braccia”. Sopra ci voleva una figura femminile raffigurante abbondanza e ricchezza. Ancora una volta Luca Martini propose il suo pupillo all’autorità e il Duca gli affidò l’incarico. “La statua, tre braccia e mezzo alta, fu da ciascuno lodata” scrisse Vasari. Pisa ebbe “abbondanza” e Pierino non ebbe abbondanza di vita. Le parche gli lesinarono i giorni.