Il topo domestico in Italia c’è almeno da seimila anni. Lo stabiliscono i risultati di laboratorio di uno scavo archeologico compiuto nell’anno che si è appena concluso, in Lombardia. Una presenza non scontata – pensavate che non fosse così? – perchè il topo di casa viene da molto lontano – sotto il profilo geografico – e ha impiegato molto tempo a diffondersi in Europa. La scoperta è venuta dagli scavi archeologici del villaggio neolitico della Tosina di Monzambano – in provincia di Mantova, sulle colline moreniche, nei pressi dal Garda e di Sirmione – dove sono emerse le tracce più antiche in Italia e dell’Europa continentale del piccolo roditore.
La storia dei topi domestici è da sempre stata indissolubilmente legata a quella dell’uomo. Originari dell’Asia, sono attestati nel bacino del Mediterraneo già nell’8000 a.C., anche se essi tardarono a diffondersi nel resto d’Europa, dove li si trova solo a partire dal 1000 a.C. Successivamente, grazie ai commerci e alle campagne militari, il topo ha esteso il proprio areale pressoché a qualsiasi parte del globo, anche sulle isole più remote. Si pensa che la domesticazione del gatto (Felis catus libyca) sia iniziata in epoca molto recente fra i 6000 ed i 10000 anni fa. Ed abbia proceduto di pari passo con la diffusione del topo. Un’arma – quella del gatto – utilizzata dall’uomo per difendersi dal roditore, che viveva di furti e che poteva arrecare gravi problemi alle comunità umane.
A Monzambano i gatti – almeno da quello che risulta dagli scavi – non erano ancora arrivati. Solo un topo. Un topo imprevisto, sulla linea della storia.
Il villaggio neolitico di Monzambano, in provincia di Mantova, era costituito da una comunità molto dinamica e interconnessa con altri gruppi umani. Oltre a svolgere lavori agricoli, questa comunità – che si pensa fosse composta da qualche centinaio di persone -lavorava soprattutto la selce, che veniva portata qui dai monti della Lessinia, in provincia di Verona. Gli artigiani della Tosina di Monzambano la scheggiavano abilmente, ricavandone punte di frecce, raschiatoi, utensili di selce con varie funzioni. Gli scavi ne hanno portati alla luce più di 35.000 mila.
“La Tosina – confermano gli archeologi – era anche uno straordinario centro di lavorazione della selce successivamente esportata in altri villaggi coevi”. E’ stato, probabilmente, durante i trasporti dei materiali e a causa dei contatti a largo raggio che la comunità aveva, pur con intermediazioni, con il bacino del Mediterraneo, che i topi sono giunti qui. Aggrappati ai sacchi delle salmerie. Su chiatte. A dorso degli animali utilizzati per il trasporto.
Ubicato nelle colline moreniche a Sud del Lago di Garda, il sito archeologico di Tosina si sviluppa sui versanti di un basso rilievo collinare prospiciente aree un tempo paludose, oggi bonificate, che costituiscono una sorta di difesa naturale attorno all’insediamento.
La collina, ad una visione generale, appare suddivisa in due zone concentriche: una terrazza superiore, probabilmente decapata per le attività agricole e coltivata a vigneto, e una parte inferiore, uniformemente inclinata verso l’esterno, coltivata a mais. È in questa fascia esterna che si sono concentrate le ricerche.
La partizione catastale odierna, che definisce un’areale circolare, del tutto anomalo rispetto alla partizione ortogonale del territorio circostante, ancora conserva in modo straordinario ‘assetto insediativo preistorico del V-IV millennio a.C. perpetuandone visivamente la millenaria presenza nel paesaggio storico attuale.
Questa situazione topografica, oltre ad essere documento singolare – sopravvissuto – di un palinsesto millenario, rappresenta anche esempio significativo delle modalità insediative di età neolitica in un’area geografica che era finora nota, pressoché esclusivamente, per gli insediamenti palafitticoli dell’età del Bronzo, collocati sulle rive dei laghetti e nelle bassure.
La fondazione dell’abitato in età neolitica avviene in un’area precedentemente non insediata.