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Un gioco, uno scherzo, una successiva aggiunta? Gli occhiali che irrompono da un quadro antico ci lasciano stupiti poichè sembrano non appartenere, nella forma a noi conosciuta, a secoli già lontani.
Eppure sin dall’inizio, passato il periodo gotico che li conformava al gusto per gli angoli acuti, si giunse agli occhiali rotondi, dotati, come vediamo soprattutto nel dipinto seicentesco di Murillo, di un buon design.
Segno di distinzione o, successivamente, di attenzione scientifica, gli occhiali delinearono progressivamente la figura dello studioso, del medico e del chirurgo. Ma in precedenza essi apparvero sul volto di apostoli e profeti. Ad indicare saggezza, vecchiaia e approfondimento.
La storia delle lenti riparte del Medioevo. Pare che già al tempo dei Romani, comunque, chi presentasse difetti visivi potesse ricorrere a vetri in grado di correggere la messa a fuoco. Probabilmente tutto partì dalla scoperta della possibilità di ingrandimento offerto da una lente. E si iniziò a utilizzare il vetro per ingrandire particolari o per leggere più scorrevolmente i manoscritto.
Seneca pare indicare nelle sfere di vetro un mezzo per ingrandire le immagini. Plinio scrive che Neronem principem gladiatorum pugnas spectasse smaragdo, che da taluni è intesa come testimonianza dell’uso, da parte di Nerone, di uno smeraldo a fini ottici durante i giochi gladiatori.
I primi documenti sicuramente veri e ancora esistenti intorno a questa invenzione sono localizzabili in Veneto, in particolare a Treviso all’interno della Sala del Capitolo del convento domenicano della chiesa di San Nicolò, a partire dal dipinto del cardinale Ugone di Provenza eseguito da Tommaso da Modena nel 1352. Questo affresco è una delle prime testimonianze dell’uso degli occhiali.
Già dal 1100 la Serenissima, cogliendo l’importanza di mantenere segreta l’arte della produzione del vetro, confinò le fornaci sull’isola di Murano con la scusa della pericolosità di queste nell’ambito di una città costruita prevalentemente con il legname, e pertanto vietava espressamente ogni fonte di traffico a forestieri e veneziani sia interna che esterna. Si evidenzia perciò che la produzione di lenti a Venezia era oramai fortemente presente.
Anche la tela di Jusepe de Ribera con l’effige di Un cavaliere dell’Ordine di Santiago non sfugge a questa logica; in essa, infatti, appare stagliata su sfondo nero una figura solitaria che si fa ritrarre in modo inusuale: indossa una golilla e un collare e regge un bastone, elementi che lo identificano rispettivamente come appartenente all’aristocrazia di corte, all’ordine di Santiago (titolo riservato ai soli spagnoli di nascita) e come membro dell’esercito.
Il personaggio porta, inoltre, un paio di occhiali da vista, oggetto che appare raramente in un quadro, soprattutto se si considera che nella prima metà del Seicento (l’opera è stata realizzata tra il 1638 e il 1640) gli occhiali non erano utilizzati per tutta la giornata, ma solo nelle occasioni in cui davvero erano necessari: e ciò a causa della loro scomodità. Dovuta alla mancanza di supporti per tenerli fermi sul volto (le stanghette saranno inventate solo nel 1727, da un ottico londinese) e alla pesantezza del primitivo e poco adatto tipo di materiale della montatura. Il fatto che il nobile del quadro li indossi, lascia ipotizzare che lo stesso fosse affetto da una forte miopia, che rendesse assolutamente indispensabile il ricorso allo scomodo strumento, divenuto elemento identificativo in grado di conferire al soggetto l’acutezza grifagna di un rapace.
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