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di Enrico Giustacchini
Facile riconoscerlo, Piero, in quell’istantanea che lo ritrae a tre anni, nel settembre del 1936. Facile perché quell’espressione di eterno bambino, gli occhi sgranati ad assorbire il mondo, con infinita, inesausta curiosità, lui non la perderà più. La ritroviamo nelle foto che lo immortalano, adulto e famoso, mentre discute con i suoi altrettanto celebri colleghi, o compie performance oramai consegnate alla storia dell’arte. Immutato è lo sguardo, immutato è lo stupore che vi riluce.
Il Piero della fotografia di cognome fa Manzoni. Le colonne alle sue spalle sono quelle del loggiato della casa di famiglia, a Soprazocco. Qui, uno dei maggiori artisti italiani del secondo Novecento ha trascorso le proprie vacanze negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Qui tornava anche dopo, in quello che considerava un po’ il suo buen retiro, il suo incognito asilo dell’anima.
Qui, nella villa di via San Giacomo, torna spesso ancor oggi la sorella, Elena Manzoni di Chiosca, presidente della Fondazione a Piero dedicata. Qui tutto è rimasto come allora, e tra una colonna e l’altra di quel loggiato si intravede sempre la minuscola valle digradare nel verde.
“In questa casa noi trascorrevamo ogni anno i mesi di agosto e settembre – racconta Elena. – Il luglio, invece, ce ne stavamo al mare, ad Albisola. I periodi vissuti a Soprazocco erano di grande libertà. Piero era il maggiore tra noi, e mio fratello Giacomo ed io, i più piccoli (i ‘piccoloni’, ci chiamava lui), lo consideravamo il capobanda. Piero era allegro, vivace. Sportivo, anche. Nuotava benissimo; a sedici anni se ne andò a Roma in bicicletta. Passavamo molto tempo a giocare nei boschi. Nella nostra proprietà i furti di legname erano frequenti, cosicché Piero fondò la ‘Callea’, ossia la ‘Compagnia Anti-Ladri Legname E Affini’. Lui era il comandante, Giacomo e la sottoscritta ubbidivamo ai suoi ordini. Ci nascondevamo tra gli alberi, e quando arrivava qualcuno gridavamo: ‘Al ladro! Al ladro!’ per farlo fuggire. Non so con quanto successo, in verità”.
La passione per la pittura, quella arrivò più tardi. Piero Manzoni, a Soprazocco, disegnava semmai per puro divertimento. Un suo bozzetto, che raffigura con tratti sintetici la casa di via San Giacomo, si è conservato perché venne utilizzato per impreziosire la carta da lettere. Elena rammenta che spesso il fratello realizzava vignette o caricature. Ironizzando su quella che definiva “la vita intensamente brillante” nella villa di campagna, egli disegnò ad esempio una volta un gruppo di mucche che ballavano il cancan.
Già, l’ironia. Difficile immaginare che Manzoni sarebbe diventato quel che sappiamo, senza una forte propensione all’ironia. “Una propensione che talora sconfinava in un umorismo nero, perfido – osserva la sorella. – Piero amava cantare e suonare strumenti insoliti, come l’ocarina o l’ukulele, e componeva qualche canzoncina. Ebbene, ne ricordo una davvero macabra, che inventò durante una gita sul lago di Garda, intitolata ‘E’ scoppiata la miniera trallallà’. Ma il suo era, più che altro, un atteggiamento. Noi che lo conoscevamo a fondo sapevamo che lui era un ragazzo buono e sensibile. E molto legato alla famiglia”.
La svolta decisiva, nella vita di Manzoni, avviene attorno ai vent’anni, tra il 1953 e il 1954. Piero è irrequieto. Interrompe gli studi universitari, comincia a frequentare pittori e intellettuali. In quei mesi frenetici, scrive un diario: uno straordinario documento, a tutt’oggi inedito, fondamentale per comprendere le radici di una genialità che è lì per manifestarsi appieno, e che sconvolgerà come uno tsunami pratiche e convenzioni dell’arte internazionale.
E tuttavia, in quei mesi frenetici, Piero non dimentica la “sua” Soprazocco. Pubblichiamo qui e per la prima volta, per gentile concessione della Fondazione Manzoni, uno stralcio di quel diario, datato 27 marzo 1954.
“Salire fino a Soprazocco è stato un po’ umido, data la pioggia, ma arrivati a casa un buon fuoco ci ha rimessi a posto. Candì e Tonio (si tratta di Candida Baldo, detta appunto Candì, e Antonio Delai, i fattori della proprietà, ndr) ci han fatto un’accoglienza cortesissima. Che simpatica gente. Contadini-signori.
Abbiamo passato il pomeriggio in casa seduti attorno al fuoco, ora leggendo, ora chiacchierando coi fattori. Verso le sei abbiamo fatto una passeggiata fino al belvedere, poi siamo tornati per il pranzo e abbiamo chiacchierato ancora con la Candì e Tonio. E’ stupefacente come la Candì si ricordi tanto dei miei parenti, meglio di me quasi. Del resto è nata prima di me. Soprazocco è un gran bel posto”.
Già. Soprazocco “è un gran bel posto”. Queste righe confermano il nuovo ruolo che Manzoni, ormai adulto, attribuiva alla villa di campagna. Il luogo che aveva accolto un tempo i suoi giochi spensierati si era trasformato in rifugio, in oasi rasserenante e rinfrancante.
“Non è un caso che Piero, quando già si dedicava anima e corpo all’arte, nonostante vivesse una vita ricca di frequentazioni, mai o quasi mai abbia condotto qui qualcuno della sua cerchia – commenta Elena. – Era come se intendesse, in un certo senso, ‘preservare’ questa casa da un mondo che gli apparteneva, di cui condivideva molte cose, ma di cui avvertiva anche i pericoli”.
Soprazocco, dunque, come tempio degli affetti e dei ricordi. E come ogni tempio, sacro e inviolabile. Manzoni continuava a tornarvi, ogni tanto, per riabbracciare profili familiari, per riassaporare profumi di bosco e di non lontane brezze lacustri. Tornò, ricorda la sorella, un’ultima volta nell’autunno del 1962. Pochi mesi prima di morire, d’infarto, a trent’anni nemmeno compiuti.
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