Jannis Kounellis (1936), greco, è un esponente di primissimo piano dell'”arte povera”. E’ morto a Roma il 16 febbraio 2017. La sintesi del suo pensiero artistico è ben compiuta nell’intervista che Stile arte gli fece e che riproponiamo.
Kounellis è un autore d’avanguardia. Laddove per avanguardia si intende qualcosa che ha a che vedere con lo spirito di un’investigazione che non può arrestarsi. Che tale spirito si concili con l’amore per la tradizione, o meglio, con l’amore per ciò che della tradizione vale la pena conservare, è cosa che connota il modo di pensare e di essere di questo maestro.
Un personaggio che mi è capitato di definire, in passato, il “Picasso dei nostri tempi”, per lo spessore della ricerca e per l’infaticabile capacità di essere laddove la storia delle arti visive oggi – pur negli sfinimenti della tecnolatria e del postmoderno – riesce a spingersi in avanti.
Di origini greche ma romano di adozione, Jannis Kounellis, che si dice “pittore” nonostante l’inclusione sistematica dello spazio nelle sue opere, dagli anni ’60 è figura centrale del movimento dell’Arte Povera. E come tale, egli ha portato nei musei e nelle gallerie internazionali gli elementi di un mondo teatrale e narrativo fatto di travi di ferro e di sacchi di carbone, di esseri viventi (pappagalli, cavalli…), di prodotti del lavoro dell’uomo (caffè, grappa, olio…), di elementi naturali e “sanguinanti” come i quarti di bue e di oggetti tratti dal quotidiano (vestiti, mobili, vele, scafi, coltelli, trenini elettrici…). Una imagerie barocca ma attualissima, nella sua capacità di ricondurre a sintesi la storia, e in grado di dar vita ad un nuovo e poetico linguaggio.
Alla domanda: “Qual è stato, nell’ambito della sua ricerca, il gesto più importante?”, lei ha risposto una volta: “Uscire fuori dalla tela, per avere la libertà di stabilire un rapporto dialettico con lo spazio”. Perché questo gesto è stato più importante degli altri?
Quando ero giovane, negli anni della mia formazione, a dominare era una cultura tonale che interponeva una distanza fra te e l’opera, una distanza critica. Nel mio caso, tale distanza viene meno. Si tratta di un aspetto fondamentale.
Anche in un quadro di Pollock, per esempio, non c’è questa distanza. C’è in un quadro di Morandi. Con Pollock tutto cambia. La distanza scompare, e prende vita una pittura che è espressione di un’inedita visione del mondo, completamente diversa da quella di una borghesia provinciale che aveva fornito una copertura ideologica all’arte precedente. La mia non è una critica a Morandi. Semmai è una difesa di De Chirico e della sua capacità di creare altre e innovative visioni rispetto al passato.
Sappiamo che Masaccio, Caravaggio, Picasso sono artisti che hanno segnato la sua formazione. In che modo lo hanno fatto?
Partiamo da Picasso, da Les Demoiselles d’Avignon. Questo quadro non ha marcato solo la mia vita, ma quella di tutti. Di tutto il secolo scorso. Ha marcato la modernità. E’ stato, per l’arte, l’inizio di una violenta rivoluzione.
Masaccio e Caravaggio, invece, hanno influito sulla mia formazione perché sono due pittori ideologici. Il primo è un umanista del Rinascimento, il secondo un controriformista. Entrambi hanno un’evidente matrice ideologica.
Lei ha affermato che “l’emotività è dinastica ed esclusiva in quanto traccia una linea di discendenza”. Qual è il suo legame con la tradizione?
Citavo Caravaggio. Qui a Roma, in queste strade, hanno operato pittori “ombrosi”. Non chiaristi… Impossibile immaginare a Roma, come in Spagna, una pittura chiarista. La modernità, appunto, qui è “ombrosa” e drammatica perché proprio loro (Caravaggio e gli altri) hanno scoperto il dramma. E’ “tradizionale” portare avanti questo segno fondamentale, non solo per l’Italia.
Che ne pensa di Duchamp?
E’ un grandissimo artista. Però io guardo a Picasso, non a Duchamp.
Chi preferisce fra Warhol e Pollock?
Sicuramente Pollock, per via dell’adesione alla tradizione. Warhol appartiene alla cultura dei multipli, mentre Pollock è unico. Come unico è Caravaggio. E dunque la scelta è scontata.
Qual è il suo giudizio sulla Transavanguardia?
Molti degli artisti di quel movimento sono miei amici. Tuttavia, io non riesco a capire le problematiche relative alla necessità di ritorno all’ordine, alla pittura, sollevate dalla Transavanguardia. Dove l’Avanguardia è disordine, la Transavanguardia è ordine. Impostato così, effettivamente, il gruppo ha una propria visione ideologica. Al suo interno ci sono autori anche validi. Però rimane aperta questa disputa fra ordine e disordine…
Se l’artista si fa portavoce di un’interpretazione del mondo, che rapporto deve avere col senso di responsabilità politica e civile?
Bisogna di nuovo tornare a Picasso. C’è una grandissima differenza tra una posizione artistica “alla moda” e Guernica. Forse il tempo “leggero” del Postmoderno serve proprio ad impedire che nasca un artista capace di creareGuernica. E’ la forza schiacciante della globalizzazione. Schiacciante e maliziosa. Una forza che non ha bisogno di Guernica, anzi la teme. La libertà fa paura. Quella libertà che aveva, ad esempio, Caravaggio.
Bruno Corà, nel testo che accompagna il catalogo della mostra milaneseAtto Unico, la definisce “un artista che non ha rinunciato alla facoltà attiva di lettura critica della storia e della realtà”. Alla luce di questo, si sente un artista “ideologico”?
Perché, esiste forse un artista che non sia ideologico? Lo sono tutti. Anche quelli che si proclamano anti-ideologici.
L’artista è solo? Che relazione c’è fra arte e melanconia?
La melanconia va messa in rapporto con l’ottimismo voluto ed imposto dai poteri economici. Di fronte a questa “interessata marea allegra”, parlare di melanconia è come mettere un dito nella piaga. Gli artisti del Nord hanno fatto della melanconia una cifra. Ma anche il nostro De Chirico ha la melanconia nel sangue.
E fra arte e paura della morte?
Giorni fa, ho ricevuto un invito da una galleria di New York con il disegno della testa di un uomo morente. E’ strano, considerato che gli americani sono così ottimisti… Passare dalla bandiera di Jasper Johns all’immagine di questo uomo agonizzante ha richiesto un bel coraggio. Bravi l’artista che l’ha realizzata e chi ha deciso di utilizzarla per l’invito.
In un’intervista, lei ha sostenuto che l’arte (come la libertà) nasce dalla consapevolezza di una mancanza, di un vuoto, di uno spazio da colmare. Può spiegarci questo concetto?
E’ lo stesso concetto che vale per la poesia. Poiesis in greco significa fare. Dunque, faccio una cosa che prima non c’era. E’ questo il senso della poesia. E dell’arte.
Qual è il suo rapporto con la materia e con gli oggetti consumati dall’uso?
Di recente, ho sentito il Papa dichiarare che il Cristianesimo non è solo una religione spirituale, ma che “la puoi toccare”. Ecco la grande diversità.
Una Madonna di Tiziano è anche una bella donna. E’ un’altra cosa, meno “scostante” di un’immagine bizantina (scheletrica, senza pelle). Per il cristiano, la pelle diventa questione di santità. Insomma, il rapporto con la materia (e con la divinità) passa attraverso la pelle. E’ un’esperienza sensoriale. Non si deve restare chiusi nel dogma di un neo-platonismo resuscitato. Il divino non è al di fuori dell’uomo. Ogni tanto bisogna dar ragione ai cattolici!
Il ferro, i sacchi ed il carbone sono ricorrenti nel suo lavoro. C’è un motivo?
Basta guardare qui (Kounellis indica un’opera alle sue spalle): le lastre di ferro, se le misuri, corrispondono per dimensioni ad un letto matrimoniale. Tutti questi lavori si riferiscono all’uomo. Non è un’ossessione ma un principio: quello di non volere-potere abbandonare l’uomo.
Il suo fare arte appare in qualche modo espressione di una visione teatrale e barocca. Condivide questo giudizio?
Tutta la cultura pittorica italiana è teatrale. Caravaggio è teatrale; ma pure ilCristo morto di Mantegna, in diversa maniera, lo è.
Viviamo in un’epoca di profonda crisi, materiale e morale. Qual è il suo pensiero in proposito?
Io penso che l’errore sia di prendere troppo sul serio il progresso. Il problema sta nella nostra ipocrisia, nei nostri interessi. La gente non ha bisogno di certi cambiamenti, e avverte certe necessità solo perché indotta. Non si può chiedere ad un abitante dell’Amazzonia di essere come un cittadino di New York che gioca in borsa. E’ la nostra violenza che produce questi effetti. E la globalizzazione è lo strumento estremo di tale pratica. Rende tutti uguali: apparentemente, però. E in fin dei conti, è una bolla di sapone.
Crede che sia possibile, oggi, continuare a sperare in un mondo di libertà?
La libertà è anche onirica. La immagini. Ne sei attratto. Ti mette in movimento. E’ un sogno che non finisce. Dunque bisogna essere sempre per la libertà. Perché ti aiuta a sognare. E questo è indispensabile per chi fa il mio mestiere.
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