di Beatrice Avanzi
“Stilearte” intervista Marco Goldin, ideatore e curatore della mostra “Monet. I luoghi della pittura”, in programma a Treviso, Casa dei Carraresi, dal 29 settembre al 10 febbraio 2002.
La mostra su Monet prosegue la serie di esposizioni che la Casa dei Carraresi dedica all’Impressionismo. Come nasce l’idea di questo nuovo allestimento? L’anno scorso abbiamo avviato un programma di sei anni che sarà dedicato all’Impressionismo ed avrà una sua coerenza e un suo sviluppo cronologicamente corretto. Dopo aver iniziato con la “Nascita dell’Impressionismo”, alterneremo una mostra di carattere tematico – com’è stata quella dello scorso anno e come sarà quella dell’anno prossimo, intitolata “L’Impressionismo e l’età di Van Gogh” – a mostre monografiche, che inauguriamo quest’anno con la rassegna su Monet.
E’ una mostra che ha un taglio inedito, incentrato sui “luoghi” della pittura di Monet…
Sì, ha un taglio diverso, anche perché proprio quest’anno, tra la primavera del 2001 e la primavera del 2002, sono previste ben dieci mostre dedicate a Monet nel mondo, senza contare quelle sull’Impressionismo… Il tema è sicuramente inedito, non è mai stato trattato in nessun’altra mostra ed è un’analisi dei luoghi nei quali l’artista ha dipinto. Nel corso della sua attività, Monet ha privilegiato lo spostamento in diversi luoghi, in Francia e in altre nazioni europee. Quindi noi “seguiamo” Monet dall’inizio del suo lavoro in Normandia, con il primo quadro realizzato nel 1858 a Rouelles, un paesino di campagna vicino a Le Havre, la città dove si era trasferito con la famiglia a cinque anni. E continueremo attraversando tutti i luoghi, i percorsi che Monet ha fatto, scanditi dal succedersi delle sezioni che sono state individuate quali “tappe” del lungo itinerario, fino al capitolo conclusivo, con una ventina di opere dedicate al giardino di Giverny e alle Ninfee.
Quali erano le aspirazioni e le finalità che guidavano Monet nella ricerca e nella scelta dei luoghi della sua pittura?
Quelle di andare incontro all’“evento”, soprattutto all’evento atmosferico. Come sappiamo, nella sua indagine Monet ha privilegiato la natura. E quindi voleva essere sempre nel luogo dove l’evento naturale si formava. Ha sempre considerato con “sospetto” il fatto di dipingere nello studio. In studio dipingeva solo i grandissimi quadri, le decorazioni, come le “Ninfee”, nella parte finale della sua vita, od al più terminava le opere, che però venivano sempre iniziate en plein air.
Pur privilegiando la ricerca sulla natura, Monet, come altri esponenti dell’Impressionismo, non trascurò la rappresentazione della città, cui è dedicata una sezione della mostra.
Sì, è una sezione molto ampia, che si chiama “Città e Villaggi”, e comprende tutti i luoghi che hanno una presenza anche “umana”, “di costruzioni” all’interno della pittura di Monet: Parigi, Londra, l’Olanda – in particolare un piccolo paese che si chiama Zaandam, vicino ad Amsterdam -. Saranno poi presenti opere eseguite in Norvegia, vicino a Oslo, a Bordighera, Antibes, e, naturalmente, a Venezia. Avremo inoltre due versioni straordinarie della “Cattedrale di Rouen”.
Proprio dalla ricerca sulle diverse condizioni luminose e atmosferiche Monet sviluppa l’idea di una pittura “in serie”, su un medesimo soggetto. E’ possibile ripercorrere questo suo modo di procedere attraverso le opere in mostra?
Sicuramente. Le serie vere e proprie sono quelle che iniziano negli anni Novanta: i Covoni, i Pioppi, le Cattedrali. Poi ci sono i quadri meno famosi dipinti in Norvegia, a Sandviken, i Mattini sulla Senna e, naturalmente, le Ninfee. Tutte queste opere sono in mostra, saranno accostate tra di loro, quindi si potranno verificare queste ricerche, le variazioni luminose tra un quadro e l’altro. Ci saranno inoltre due diverse versioni del “Disgelo”. Sono quadri realizzati nel 1880, quando Monet abitava a Vétheuil, lungo la Senna. Durante un inverno freddissimo, si ghiacciò tutta la superficie del fiume e, al disgelo, Monet fece una quindicina di opere che precedono di dieci anni i Covoni e possono essere considerate ai primordi delle serie. Sono dipinti che hanno inflessioni di luce, nei momenti della giornata, diverse. Saranno esposte due versioni molto belle: una pienamente invernale, con una luce argentea, freddissima, e, a fianco, invece, una versione con un tramonto accecante, rosso, che illumina i ghiacci bianchi che corrono sull’acqua. Quindi ci sarà questa bellissima divaricazione tra una scena colta nel medesimo luogo e dipinta, però, in modo totalmente diverso.
Questa personale “geografia dell’anima” si compie infine a Giverny, dove Monet esegue la serie delle Ninfee, negli ultimi trent’anni della sua vita. Anche questa fase è ampiamente documentata in mostra…
Monet abita a Giverny in affitto dal 1883. Nel 1890 acquista una casa con una piccola proprietà attorno, e nel 1893, durante l’estate, ottiene dal prefetto della zona il permesso di creare un giardino acquatico. Nel 1895 dipinge le prime tre versioni del “Ponte giapponese”, ancora senza il fiorire delle ninfee. In mostra ci sarà, per la prima volta, una di esse, da una collezione privata americana che non aveva mai prestato questo quadro. Si passa poi a una delle versioni in assoluto più celebri (realizzata cinque anni dopo, nel 1900), che viene dal Musée d’Orsay e mostra il ponte nel suo massimo splendore, con tutta la vegetazione intorno. In seguito, dal 1903, comincia il lavoro dedicato alle Ninfee: lo sguardo del pittore si restringe, elimina mano a mano il ponte, si concentra sullo stagno e poi solo sui fiori. Dal 1914 Monet decide di rimettere mano al progetto delle grandi decorazioni – che saranno poi esposte all’Orangerie a Parigi – e modifica nuovamente il suo impianto visivo, passando a un punto di vista che si riallarga di nuovo…
Attraverso il suo taglio “geografico”, la mostra copre dunque l’intero arco dell’attività di Monet.
E’ così. Iniziamo con il primo quadro in assoluto di Monet (la citata “Veduta a Rouelles”, del 1858), mentre l’ultimo dipinto presente in mostra è del 1922, quattro anni prima della morte del pittore. Con il 1922 si chiude la parabola più importante dell’arte di Monet, perché nel 1923 egli è operato di cataratta e ridurrà notevolmente la sua attività. Gli ultimi tre-quattro anni sono quasi totalmente dedicati alle grandi decorazioni che ora sono all’Orangerie e sono inamovibili.
Il visitatore potrà quindi cogliere anche i caratteri più innovativi dell’arte di Monet, il cui esempio fu fondamentale per gli sviluppi dell’arte contemporanea. Un aspetto, questo, non sempre adeguatamente sottolineato rispetto all’immagine di Monet come capofila dell’impressionismo.
Tra il 1920 e il 1922, Monet realizza alcune opere molto importanti in questo senso. Gli ultimi tre quadri che chiudono la rassegna mostrano un Monet anticipatore dell’Informale, che si aggancia a quello che succederà venticinque anni dopo nella pittura americana ed europea. Uno è una versione del “Ponte giapponese”, molto diversa da quella del 1900, ormai con un colore frantumato, dove è quasi irriconoscibile la forma del manufatto. Ci saranno poi due versioni dell’“Allée des rosiers”, un viale coperto da archi fioriti, che diventa puro colore, pura materia.
La mostra si qualifica per l’eccezionalità dei prestiti ottenuti da importanti istituzioni internazionali. Vuole illustrarci alcune delle opere più significative?
Vorrei innanzitutto sottolineare lo straordinario contributo che ci ha dato il Musée d’Orsay di Parigi, con il prestito di sette quadri. Un trattamento che viene riservato solo ad istituzioni del calibro del Metropolitan di New York o della National Gallery di Washington, e che premia la qualità delle nostre mostre. Tra l’altro, mi è stato appena confermato che questo numero di prestiti verrà rinnovato per la mostra su impressionismo e Van Gogh dell’anno prossimo. Tra i prestiti attuali, vorrei ricordare la “Stazione di Saint-Lazare”, che fa parte di una serie di quadri del 1877, tra le opere in assoluto più famose di Monet, il “Bacino di Argenteuil”, del 1872, che è un dipinto fondamentale per la nascita dell’impressionismo, e il “Ponte giapponese”, citato prima. Vorrei poi citare le due versioni della “Cattedrale di Rouen”: una arriva da una collezione privata giapponese, ed è un’opera mai esposta in Europa; una dal Museo di Belgrado, e non veniva esposta dal 1922. Tra le bellissime “Ninfee”, molto interessante è quella di quasi due metri che giunge dal Liceo Monet di Parigi, a cui fu donata dal figlio dell’artista: un’opera mai prestata a nessuno, che esce dalla scuola per la prima volta dagli anni Cinquanta. Avremo poi un quadro inedito – ed è una cosa molto rara -: un paesaggio della Senna identico ad un Renoir, ora al Musée d’Orsay, che, come scrive in catalogo il responsabile della documentazione dell’istituzione francese, testimonia come Renoir e Monet avessero lavorato in quel momento a stretto contatto, con i due cavalletti affiancati. Ma i quadri in mostra sono una novantina. Le opere sono inoltre accompagnate da una ricchissima documentazione fotografica dell’epoca: circa cinquanta immagini che ci faranno vedere gli stessi luoghi dipinti da Monet, con dei confronti serratissimi.
L’attività espositiva della Casa dei Carraresi sarà affiancata dall’attività del “Centro studi sull’impressionismo e sulla pittura del secondo Ottocento”, di recente fondazione. Quali sono le finalità e i programmi di questa istituzione?
Ho pensato di creare qualcosa che facesse percepire immediatamente che, lavorando intorno a questi temi, intendiamo assicurare continuità e serietà scientifica. Da qui la decisione di varare una programmazione che dal 2000 va al 2006 e di dar vita al Centro studi, presieduto da Rodolphe Rapetti, della direzione dei Musei di Francia, e dal suo vice Michael Zimmermann, vicedirettore dell’Istituto di Storia dell’arte di Monaco di Baviera. Attraverso il Centro realizzeremo ogni anno un convegno dedicato al tema che la mostra tratta. Cominceremo il 15, 16 e 17 gennaio 2002 con un convegno internazionale dedicato a Monet, al quale interverranno studiosi di tutto il mondo per parlare dei più svariati aspetti della produzione dell’artista e di autori a lui vicini. Gli atti del convegno saranno pubblicati nel corso dell’estate o, al più tardi, in autunno