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di Vera Bugatti
[N]el 1864 il chimico Eugène Chevreul catalogò le tinte antiche: 14.400 tonalità cromatiche, tutte ottenute da sostanze naturali. Contemporaneamente la chimica industriale spopolava con l’immissione sul mercato dei colori sintetici, sicché molti artisti lasciarono alle spalle la produzione personale dei colori. I tubetti industriali, comodamente utilizzabili nell’ambito della pittura all’aria aperta, a diretto confronto con il vero, favorirono, ad esempio, lo sviluppo dell’Impressionismo. Ogni maestro del passato, invece, lavorava tra l’eredità delle conoscenze apprese in bottega, la sperimentazione e la ricerca. In molti casi, come avviene nella pratica alchemica, le formule restavano segrete. E’ certo il fatto che la miscela dei colori nasceva, con diverse modalità, dalla fusione di sostanze animali, vegetali e minerali, debitamente pestate, che dovevano depositare per giorni o diversamente bollire “il tempo di un padrenostro”. Alle soglie del terzo millennio la validità di tali ricettari resta intatta, anche se diventa difficile reperire alcuni ingredienti, che oggi sono stati sostituiti da sostanze chimiche. Ma di sicuro certe tinte – si pensi ad esempio, solo per giungere al “vicino” Settecento, alla famosa lacca rossa di Fra Galgario, che vibrava di una luce intensa, o ai blu di Rosalba Carriera, ottenuti attraverso l’uso dell’orina – non sono altrimenti riproducibili. La sintesi chimica infatti ha molti vantaggi, ma non è in grado di offrire l’ampio ventaglio di elementi cromatici intermedi che risultavano unici e che non possono essere oggi ottenuti nemmeno attraverso una corretta miscela dei colori industriali di cui disponiamo. A partire dall’Ottocento, insomma, il numero dei colori di base diminuì, e i semitoni furono sempre più affidati alla realizzazione di accordi cromatici o di velature; l’effetto, comunque, non era evidentemente lo stesso. Un manuale dedicato alla produzione dei colori antichi fu realizzato nel 1887 da Olindo Guerrini e Corrado Ricci, riproponendo un codice del XV secolo, conservato alla Biblioteca dell’Università di Bologna. Il codice bolognese, nel XIX secolo, era inedito. Solo Michelangelo Gualandi, nelle sue Memorie originali italiane riguardanti le belle arti, ne aveva ripreso qualche passaggio. Il volume di Guerrini e Ricci intendeva così colmare la grave lacuna intercorsa tra Cennino Cennini – che operò in ambiente trecentesco, sulla lunga scia di Giotto – e i cinquecentisti. Un bicchiere di orina e piastre di rame per un affascinante azzurro Probabilmente le ricette per “creare colori” dovevano fungere da canovacci, interpretati spesso in maniera personale dai vari artisti (si pensi alle sperimentazioni leonardesche nel campo della pittura murale). Ad esempio gli azzurri, apparentemente uguali, dei dipinti del Francia e del Perugino, erano ricavati da sostanze ben diverse. Il ricettario di Guerrini e Ricci propone così molti e differenziati procedimenti per produrre ogni colore, e per ricavare lacche, vernici e inchiostri. L’azzurro, come dicevamo, si può ottenere in vari modi: “Prendi dell’orina e mettila in un vaso di terracotta in modo che sia pieno per metà. Poi prendi delle piastre di rame dello spessore di un caldaio grosso e mettile sospese due dita sopra l’orina. Chiudi il vaso e lascia stare per due mesi. Vedrai sopra le lamine l’azzurro”. Ma si può anche usare, se non si vuole far ricorso all’orina, del “succo di erbe”. Si devono cogliere all’inizio del mese di luglio “quei fiori viola che nascono nei campi” e con il loro succo riempire un’ampolla di vetro, versandoci sopra dell’aceto fino all’orlo. L’ampolla dev’essere poi chiusa ermeticamente e posta sotto il letame, per potervi osservare, dopo quindici giorni, l’azzurro. Dagli escrementi un’altra ricetta per ottenere le tinte del cielo Od ancora, si può ricavare dallo sterco canino bianco, triturato e stemperato con urina: si scrive o si dipinge usando tale composto e poi si spennella con il succo delle bacche dell’edera. Il ricettario spiega pure come riconoscere l’azzurro oltremare, derivato da lapislazzuli, da quello ottenuto attraverso altre procedure: “Metterlo su una lastra di ferro infuocata e pulita. Se non cambierà colore è ottima, se volge al nero, vale poco, se è adulterata diventerà cenere senza colore, se invece tende al biancastro, è stato prodotto artificialmente”. In modo analogo, diverse tonalità di verde possono essere ricavate da piastre di rame poste per quindici giorni nel letame, o dal succo di erba morella, o da gigli azzurrini scuri pestati, o da bacche di spincervino, o da fiori di vedovina tenuti in ammollo a caldo con ammoniaca e allume, o, ancora, stemperando con acqua gommata e allume di rocca fiori di guado precedentemente essiccati. Per ottenere invece un “granato cardinalesco”, occorre munirsi di “una libbra di verzino raschiato e metterlo a bollire fino a che si riduca di una metà, poi si prende una libbra di allume di rocca e la si fa bollire il tempo di un padrenostro”. Il risultato è un vermiglio, che si dovrà mescolare con liscivia forte.
Guscio d’uova e vetro pestato per un bianco bellissimo Per avere un bianco bellissimo, poi, “si mescolino cocciole di uova e vetro ben frantumato, mettendo il composto in un vaso di terra che andrà posto in una fornace per un giorno intero”. Il colore dovrà quindi essere stemperato con acqua gommata. L’incarnato è ricavato, diversamente, da una miscela di indaco, giallo orpimento, ocra e bianco. Prendendo dello zafferano e mettendolo a mollo con chiara d’uovo preparata per tre ore, si avrà invece un giallo luminoso. Lo zafferano può però essere sostituito anche dai pistilli gialli del croco essiccati. Oppure si lavora il tagete (o garofano turco) con allume a caldo e ammoniaca, e si ottiene il “giallo santo”. Il ricettario indica anche come realizzare, tramite un articolato procedimento, un inchiostro utile per scrivere: “Si prendano un boccale di vino bianco, quattro once di galla macinata, una manciata di scorze di melegrane secche, una manciata di scorze di ornello fresco, rasato con il coltello, e una manciata di scorze di radiche di noce fresche. Poi vi si uniscano due once e mezzo di gomma arabica e si metta il tutto al sole per sei od otto giorni mescolando spesso. In seguito è necessario aggiungere due once e mezzo di vetriolo romano e mettere a bollire per lo spazio di un miserere. Poi, una volta freddo, si deve colare il composto e metterlo due giorni al sole, aggiungendovi allume di rocca”. Secoli di tradizioni tramandate di bottega in bottega si ritrovano insomma nel compendio ottocentesco del Libro dei colori, che valica i confini dell’indagine, estrapolando processi chimico-alchemici dei maestri del passato, i quali pure ricorrevano a materiali organici. Come Cennini, che suggeriva, per ottenere un rosso, di aggiungere all’inchiostro, oltre all’albume, il cerume, definito in seguito dallo stesso Libro dei colori “saccatura de orecchie”. Cerume che probabilmente, per la sua natura sebacea, eliminava la schiuma prodotta dal chiaro d’uovo mischiato al vermiglione.
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