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di Michele De Luca
Appena trentenne, Amerigo Bartoli (Terni, 1890 – Roma, 1971) partecipa insieme a Carlo Socrate ed a Emilio Notte, al Concorso per il Pensionato Artistico Nazionale con un olio di forte connotazione veristica e di sicuro impatto emotivo (Cacciata di casa), che fa scrivere ad Anton Giulio Bragaglia su Cronache d’Attualità:” L’opera di Bartoli ha il difetto palese di esser stata dipinta con la sfrontatezza ch’è tutta particolare a questo pittore di razza. Il Bartoli, peccando di indifferenza col suo muraccio di fondo e le sue figure disegnate con la facilità che ognuno sa di lui e che peraltro non deve confondersi con la faciloneria, riafferma le sue grandi qualità”; e paragonando il dipinto con quello, sullo stesso tema, del “concorrente” Carlo Socrate, conclude:” Se la pittura ha uno scopo lirico, quello di Bartoli è un quadro e quello di Socrate è una esercitazione”. Ecco, in questi brani stralciati dal lungo articolo di Bragaglia, c’è una chiave importante di lettura dell’opera di Bartoli, che nella lunga ed intensa esperienza artistica è sempre in bilico tra “cronaca” (come dimostra poi la sua ricchissima produzione di disegnatore ed illustratore per una miriade di giornali e periodici, in primis il mitico Mondo di Pannunzio) e “poesia”; il tutto soffuso da quel sentimento leggero e talvolta struggente che egli stesso definiva come “gioiosa malinconia”, che permea il suo lavoro di pittore, in ognuno dei generi “classici” da lui affrontati, dal ritratto all’autoritratto, dal paesaggio (specie quello umbro) alla natura morta, dal nudo alle scene di vita, le quali rievocano il “suo” piccolo mondo antico e provinciale, raccontato con una sorta di sguardo incantato e con una sottile vena ironica (Serata in cortile (Paese), 1920, Piazza Tacito a Terni, 1936, La mongolfiera, 1854).
All’arrivo a Roma nel 1906 da Terni (che in un appunto egli ricorda come “la meno scenografica e medioevale città dell’Umbria, quasi interamente salva da archi, archetti, rosoni e merli), Bartoli frequenta l’Accademia di Belle Arti (è allievo di Cambellotti e di Sartorio) e dà assai precocemente anticipazioni di quella che sarà la sua fisionomia pittorica, caratterizzata da un forte impegno naturalistico e scevra da legami con questa o quella “scuola”; da allora, per oltre sessant’anni, sarà con Ungaretti, Baldini, Alvaro, Patti, Cardarelli, De Chirico, Maccari e Mezio, tra i protagonisti che all’epoca affollavano la scena letteraria e artistica romana.
Nel 2008 gli è stata dedicata una bella mostra, Amerigo Bartoli e l’Umbria, curata da Giuseppe Appella, allestita nella città natale, nelle sale di Palazzo Montani Leoni, che ha avuto il merito di riportare alla ribalta un personaggio di grande rilievo della cultura del nostro Novecento, riproponendone l’intensa vicenda creativa caratterizzata da quel timido colorismo atonale, tutto effetti di luce e ombra, che in obbedienza ad una precisa cerimonia rappresentativa e ad una impalcatura formale da antica bottega, determina – come ha scritto Appella – “un approccio all’immagine dall’esterno, proprio il contrario della Scuola Romana”. Egli non si pone il problema di una pittura imprigionata in uno stato contemplativo e nella “dipendenza” del tema; nemmeno quello di perfezionare l’opera: lascia sempre qualcosa di indeterminato che allarghi gli orizzonti allo sguardo e alla fantasia di chi vi si trovi di fronte.
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Il filmato del premio Esso, vinto da Bartoli
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