Al culmine della carriera, osannato ovunque per le sue straordinarie “macchine” teatrali, Andrea Palladio si recò a Venezia ad allestire la scenografia per la rappresentazione di una tragedia scritta da un autore dilettante. E fu un completo disastro…
di Lionello Puppi
[L]a restituzione alla Modernità del teatro secondo gli Antichi costituisce, forse, nel progetto “classicistico” di Palladio, il momento più tormentato, il rovello più inquieto: l’oscurità, infatti, dei passi di Vitruvio, al riguardo, era speculare all’insufficienza delle risposte offerte dalla paziente esplorazione archeologica dei reperti giunti a noi, soprattutto intorno al collegamento tra cavea e proscenio, alla consistenza delle prospettive, alla copertura.
Rifiutava, Andrea, la sistemazione scenografica codificata da Sebastiano Serlio nelle Regole del 1540 – da cui peraltro discenderà la tradizione teatrale avvenire – in quanto spezzava, negli episodi giustapposti del luogo dello spettacolo e di quello degli spettatori, uno spazio che, nell’exemplum antico, presentiva unitario, e costituito, insomma, dalla compenetrazione e dalla intersezione di quegli episodi.
La chiamata di Daniele Barbaro ad illustrare la sua edizione volgare del De architectura di Vitruvio, che apparirà nel 1556, aveva consentito a Palladio di elaborare un tentativo di ricostruzione grafica che appare caratterizzata da una monumentale scenafronte a doppio ordine, con statue e bassorilievi ad animarla e tre porte su nicchioni destinati ad accogliere l’impianto di prospettive plastiche fisse designanti il luogo dell’azione, anziché le macchine di tre facciate mobili dipinte dei periacti vitruviani, mentre il raccordo del palcoscenico con la cavea, prevista semicircolare e a gradoni, restava sostanzialmente indeterminato.
L’occasione di una concreta sperimentazione verrà all’architetto nel 1561, allorché l’Accademia Olimpica gli affiderà il compito di progettare e costruire un teatro “di legname” nel vasto spazio del salone della Basilica vicentina per ospitarvi la messinscena della commedia L’amor costante di Alessandro Piccolomini: e l’esito dovette risultare di così largo ed entusiastico consenso da indurre la committenza a far smontare l’apparato e riporne i pezzi per rimontarli l’anno dopo ad accogliere la rappresentazione di una tragedia, che sarà individuata in quella Sofonisba che Giangiorgio Trissino, “scopritore” e primo educatore di Palladio (ma ormai non più tra i vivi: s’era spento nel 1550), aveva composto nel 1514-15 e, con tutti i suoi limiti, “imitata nella letteratura europea – lo asserisce Benedetto Croce, – risplende come una prima stella apparsa sull’orizzonte del moderno teatro tragico”, tant’è che a Blois, nel 1554, aveva conosciuto la sua prima rappresentazione.
Sino a che punto, per renderla coerente con il genere ben più impegnativo, Palladio abbia ritoccato la macchina teatrale costruita l’anno prima in funzione d’una commedia, ignoriamo, giacché la documentazione archivistica concernente il duplice evento è frammentaria e quella visiva (consistente in due monocromi affrescati nel 1595 sulle pareti dell’antiodeo del Teatro Olimpico) offre immagini riprese da differenti angolature. Possiamo, comunque, ritenere che non fosse modificata la scenafronte di due ordini di colonne inframmezzate da statue, e coronata da bassorilievo, mentre saran state sostituite, e rese coerenti con la scena tragica e con la vicenda di Sofonisba, le prospettive finte dietro le porte, e la cavea sarà pur sempre rimasta organizzata come un emiciclo a gradoni coronato da un colonnato ionico reggente una trabeazione (ispirato alle passeggiate del teatro romano di Verona) con statue all’intercolumnio.
La risonanza della duplice iniziativa fu ampia, e ne ebbero lustro sia l’Accademia promotrice (i cui accoliti cominciarono seriamente a pensare alla costruzione di un teatro stabile: che sarà l’Olimpico), sia l’artefice dell’impresa. Se travalicò i confini dello Stato veneto, grande impatto dovette avere nella sua capitale, e soprattutto entro gli ambienti interessati allo spettacolo, e dunque entro l’universo delle “compagnie della calza”, consorterie di nobili il cui fine statutario, approvato dalle supreme Autorità della Serenissima, consisteva nella partecipazione con proprie iniziative – sfilate, feste, banchetti -, e con propria “livrea” dalla “calza” caratterizzata dai colori dell’“impresa” adottata, al funzionamento della complessa macchina processionale dei pubblici rituali che omologavano, nella sintesi di un evento unitario, valori civili e religiosi.
Orbene, dall’avvio del sesto decennio, constatiamo la particolare vivacità della Compagnia denominata degli Accesi sotto il priorato di Girolamo Foscari che, nel 1562, ne faceva redigere, e sottoscriveva, gli Statuti (il documento si trova oggi presso la Biblioteca Apostolica Vaticana) e, due anni dopo, provvedeva a far stendere il memoriale delle feste organizzate in onore di Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, del padre Guidobaldo e dello zio cardinal Giulio nei primi giorni del giugno 1564, e culminate nella esposizione, davanti al Palazzo ducale e dopo che aveva percorso il Canal Grande a partir da Rialto, della “Cappa piramidata”, ovvero “teatro del mondo”, progettata da Giovanni Antonio Rusconi.
Il documento (su pergamena ed oggi di proprietà privata, è stato in parte trascritto da L. Padoan Urban nel catalogo della mostra Architettura e Utopia nella Venezia del ’500, 1980), include, oltre che la descrizione della “calza” degli Accesi (la destra “metà dentro incarnata e di fuori cerulea divisa da fascia bianca”; la sinistra “scarlatto purpureo con ricamo d’oro ornata di gioie”) e il testo dei contratti stipulati con le maestranze incaricate dell’esecuzione del “dessegno de Zuan Antonio Rusconi”, un paio di componimenti poetici in lode dei “magnifici Signori della Compagnia degl’Accesi”, appositamente scritti da Giovanni Mario Verdizzotti (da qualche tempo ormai diligente segretario di Tiziano) e di Giovan Maria Bonardo, esponente e animatore dell’esclusiva Accademia dei Pastori frattegiani riunita, non senza sospetti di eterodossia da parte del Santo Uffizio, in Fratta Polesine attorno a Lucrezia Gonzaga.
Le feste in onore dei Signori urbinati, concluse col viaggio in Canale della “gran Cappa piramidata remurchiata da una fusta dinanzi et l’altra dietro festeggiando con musiche et fuochi artifizziati a grande e bella e dilettevol vista che tutta la città ammirò con tante barche avanti e di dietro”, dovevano costituire l’apice dell’attività, se non degli “Accesi”, certamente del priorato di Girolamo Foscari, e dagli studiosi – a cominciar da Lionello Venturi – tali furono considerate.
Non fu così, sebbene, per la consegna delle attività di quel sodalizio ad una memoria nei tempi futuri non offuscata, sarebbe stato meglio: il botto finale, infatti, il suggello, gli Accesi se li riserbavano per l’ultimo giorno del Carnevale dell’anno a venire 1565, che sarebbe caduto il 26 febbraio, e sarebbero consistiti nella messinscena di una tragedia entro la struttura di un teatro ligneo all’uopo costruito. Che le cose siano andate precisamente in quel modo, è Giorgio Vasari ad attestarcelo.
“Ora, Federigo [Zuccari, che era giunto tra le Lagune, invitato dal patriarca Giovanni Grimani, fin dalla tarda primavera del 1563], se bene era sollecitato a tornarsene da Venezia, non poté non compiacere e non starsi quel carnevale [1565] in quella città in compagnia di Andrea Palladio architetto, il quale avendo fatto alli signori della Compagnia della Calza un mezzo teatro di legname, a uso di colosseo, nel quale si aveva da recitare una tragedia, fece fare nell’apparato a Federigo dodici storie grandi, di sette piedi e mezzo l’una, [e avrebbe avuto lode] per la bontà e prestezza con la quale la condusse”.
Le affermazioni dello storiografo aretino (che le confida all’edizione giuntina, del 1568, delle Vite; e dovette raccoglierle dalla viva voce dello Zuccari incontrandolo a Firenze sul finir del 1565 o da Palladio, allorché lo visitò a Venezia nel maggio del 1566) non son mai state messe in dubbio, per la buona ragione che son confermate da un paio di documenti inoppugnabili, di cui diremo subito.
Oscure restano piuttosto le ragioni per cui gli Accesi, dopo il clamoroso, ma costosissimo, successo delle iniziative messe in campo ai primi di giugno del 1564, ne decidevano una sorta di supplemento, altrettanto costoso; né meno incomprensibile inoltre – e mentre solo recentemente è stato riconosciuto nelle adiacenze immediate del palazzo di Girolamo Foscari presso San Simeon Piccolo a Santa Croce, il luogo dove fu eretto il teatro – appare il motivo del ricorso, per la recita, anziché ad un “classico”, ad un testo espressamente commissionato, di qualità letteraria assai modesta e, in effetti, scritto da un “dilettante”, Conte da Monte, che di professione era medico.
Lampante appare, viceversa, la chiamata di Palladio: che rimanda alla fama che s’era guadagnato col duplice exploit teatrale per l’Accademia Olimpica nel biennio 1561-1562 entro il salone della Basilica berica. Riflettiamo, però, su alcuni altri fattori. Come Palladio, anche Conte da Monte – in realtà, Pigato: di piccola nobiltà provinciale, s’era laureato a Padova il 18 marzo 1544 “in artibus et medicina” ma praticherà poco, e, se pur s’impegnerà nella fondazione del locale Collegio dei medici, lo incontriamo ingolfato in proposizioni teoriche “de morbis” di stretta osservanza galeniana – proviene da Vicenza.
E non solo, visto che anche Giambattista Maganza – il pittore ed estroso poeta soprannominato “Magagnò” -, al quale il Da Monte concede, calato mestamente il sipario sulla sua rappresentazione, il diritto di stampare, presso Simon da Trino in Venezia, quasi se ne volesse liberare dopo il disastro, il testo del suo componimento tragico nel marzo del 1565, ha la stessa origine. Di più: a meglio omologare i tre personaggi concorre un fattore ancor più vistoso, giacché, tutti, non solo son membri dell’Accademia Olimpica, ma appartengono al novero dei suoi fondatori sin dall’“anno 1555 di nostra salute”.
Trarne che, già all’indomani della messinscena dello “splendidissimo apparato” della Sofonisba in Basilica a chiudere il carnevale del 1562, che è poi suppergiù il momento della successione nel priorato degli Accesi di Girolamo Foscari a Giulio Contarini, i vertici della Compagnia veneziana abbiano preso contatto con gli Olimpici per trattare l’ingaggio di Palladio in vista della realizzazione, nell’ambito delle loro iniziative dedicate allo spettacolo, di una identica macchina teatrale, non pare affatto inverosimile. Men che mai
– s’aggiunga, alfine – ove si faccia caso che il Magagnò dedicherà l’edizione dell’Antigono a quel Francesco Pisani cui lo avvincevano gli stessi legami d’affetto che univano quel patrizio al Da Monte e al Palladio, e che all’universo degli Accesi fu vicino quanto basta da indurre uno studioso quale Giangiorgio Zorzi a sospettare che possa aver sostanzialmente contribuito alle spese per l’allestimento del teatro “di legname”: un impegno, dunque, non accantonabile, ma la cui messa a punto avrà visto scorrere il tempo sin al di là delle feste in onore dei Della Rovere.
E’ probabile, infatti, che Palladio l’abbia
– per dir così – preso in mano verso la fine del 1564 quando, dopo aver faticosamente messo insieme i quattrocento ducati necessari a formar la dote della figlia Zenobia, si trovava presso Francesco Pisani per seguir a distanza i lavori, auspicati dal patrizio, per il coro del duomo di Montagnana: nel frattempo, l’architetto aveva incontrato Federico Zuccari, e ne era nata la reciproca simpatia che suggerirà ad Andrea di chiedergli la collaborazione rammentata dal Vasari (e di consentirgli, all’indomani della recita dell’Antigono, d’accompagnarlo a Cividale del Friuli per la posa della prima pietra del Palazzo pretorio, di cui aveva predisposto il progetto). Ma allo slancio, alla tensione di Andrea, corrispondeva davvero il senso di responsabilità dei committenti? Non solo l’organizzazione pratica dell’evento, ma il reclutamento degli attori, l’accorta e armonica regia di questi e dei loro movimenti: ci furono leggerezze, rivalità segrete?
Quale e quanta energia intellettuale e fisica, invece, Palladio avesse speso nel creare il teatro, è lui stesso a testimoniarcelo in un passo di lettera indirizzata al committente vicentino Vincenzo Arnaldi il 23 febbraio 1565, subito dopo, dunque, la chiusura del cantiere e la consegna del teatro agli attori per le prove della recita: “ho fornito di fare questo benedetto theatro nel quale ho fatto la penitentia di quanti peccati ho fatto e sono per fare”. Se ne sentiva, tuttavia, ripagato dall’esito conseguito, del quale, lui solitamente schivo, era così contento da invitare il corrispondente ad assistere alla rappresentazione.
“Martedì prossimo si reciterà la tragedia: quando Vostra Signoria potesse vederla, io la esorterei a venir perchè si spiera che debba esser cosa rara”: e che così debba esser andata, mai sinora alcuno aveva dubitato, ancorché, veramente, non fosse, né sia, dato sapere come l’architetto avesse risolto
– nell’ipotesi del mantenimento della scenafronte monumentale e della cavea a gradoni preposti a Vicenza – il rapporto tra i due episodi spaziali, e quale funzione avessero i pannelli dipinti dallo Zuccari. Ma, insomma e almeno, che l’evento avesse riscosso il successo di cui avevano goduto i precedenti vicentini, non v’è chi non abbia dato per scontato, anche tenendo conto di frammentarie notizie di un imponente afflusso di spettatori.
Tra queste, però, qualcosa baluginava di inquietante abbastanza, se si fosse stati più attenti ed accorti, da lasciar, non solo più cauti, ma perplessi: Cosimo Bartoli, ambasciatore mediceo presso la Serenissima, infatti, in un dispaccio inviato a Firenze il giorno dopo la recita (28 febbraio: lo ha reso noto Loredana Olivato cui va il merito d’aver riconosciuto e additato il luogo della recita) – il cui “suggeto, specifica con qualche sprezzo il Bartoli, fu di Aristobulo cavato dalle historie di Iosepho [Flavio] da un medico vicentino” – confessa che la gran calca di gente scalmanata premente da ogni parte aveva indotto lui, con il Legato pontificio e gli Ambasciatori imperiale e di Savoia, a rinunziare, preferendo recarsi a cena nella casa, che era lì a due passi, dello stesso Bartoli.
Ed ecco: alla fin dei conti, meglio così.
A dispetto di una “scena di legnami molto ricca di colonne, di gradi e di statue”, e a prescindere dal servizio d’ordine disastroso, lo spettacolo “non ha satisfato molto”. Il rinvenimento, e la recentissima edizione a cura di Francesca Lopresti, dei diari di un gentiluomo vicentino, Fabio Monza, amico di Palladio, che dell’evento fu, a sua volta, testimone, consente – adesso, e a futura memoria – di stimar eufemistiche le espressioni del Bartoli.
S’era mosso da Vicenza, il Monza, un paio di giorni prima dell’avvenimento, con “altri”, per guadagnar Padova a cavallo; da là, in barca lungo il canal della Brenta, la compagnia aveva raggiunto Lizza Fusina dove trovava la “gondola” che l’avrebbe traghettata sino a Venezia (ed è già malumore, perché “si pagavano le gondole e barche assai perché molti concoreano per andar a veder la tragedia di compagni composta per messer Conte de Monte, nominata Antigono”; e si constati en passant come, da quelle parti, da allora ad oggi, certe abitudini persistano ostinatamente…); là, presumibilmente a San Giorgio, un’altra gondola provvedeva, percorrendo il Canal Grande, a sbarcare il buon Monza presso la residenza del rappresentante dei Vicentini per il pernottamento, che condividerà con tre compagni di viaggio.
Il mattino appresso, il quartetto raggiunge “messer Conte de Monte” e, alfine, la “compagnia accede al teatro circa le 17 hore”: “et vi era un aparato di un bel teatro, fato e ordinato dal Palladio”. Ma la buona impressione dura poco; qualcosa non torna. Quantunque la gran parte dei posti disponibili fosse già occupata, il gruppo riesce ad accomodarsi (“erano già quasi cargi i palchi [i gradoni?] et, presi i luogi, stetemo lì”); attende: ma assiste soltanto ad un flusso incessante ed indisciplinato di ingressi durante le quattro ore successive (“vene tanto cargo di genti et di magnifici che vi fu un grandissimo fracho e furno fate di molte insolentie”), quando l’arrivo di ben quattrocento donne, che vengono sistemate nell’orchestra, con gran disagio dei gentiluomini di particolar riguardo che già vi erano stati sistemati su sedie (“circa le 24 hore, venero le done, da circa 400, et furono accomodate nella orchestra del teatro et in ditto luoco ve erano posti di molti magnifici cum cadrege che stringea assai il luogo delle donne, quali furono accomodate et assetato il rumore de circa una hora di note”), provoca ulteriore disagio.
Passano altre quattro ore di baccano ed improperi tali da suscitare nel Monza il sospetto che fossero sobillati ad arte dal primo attore, il “Gobbo dell’Anguillara”, per far dispetto a Conte da Monte, in quanto autore di un testo evidentemente non gradito dal gruppo di interpreti arruolati (“Et stetero fino alle 4 hore prima che cominciassero, cum tanto strepito et gridi che era un vituperio, e questo iudico fosse ad arte per fastidir li ascoltanti atiò la tragedia non reusise, per dar botta a messer Conte, et fu arte del Gobbo del Anguilara”).
Quando, finalmente (e son le quattro del mattino), si comincia, è peggio del disastro annunciato. Il “Gobbo” ribalta “effetti speciali”, s’impappina nella dizione, né van meglio i comprimari (“il Gobo fece comparir una ombra che dicea de venir dal inferno, tamen mostrò che venisse dal cielo. La tragedia fu recitata male et per il Gobo furno fati di molti errori”), ma – ciò che è più inquietante – lo stesso impianto spaziale palladiano, nell’episodio cruciale del rapporto tra scenefronte e prospettive, traballa (“la scena era bella, ma la prospettiva brutta, di modo che riusì male”).
Insomma: un fiasco colossale. Al Monza, deluso e stremato (“ne hebi una gran strese perché stieti fermo da circa 14 hore, cum li genochi ritrati, et patei anco fredo”), non resta che tornar “a casa cum messer Conte, il quale era mal sodisfato”.
E Palladio? Nessuno, né il Bartoli, né il Monza ricordano d’averlo incontrato nella ressa e tra i tumulti, ma per la verità neppur se ne preoccupa. Riluttante ad esibirsi, s’era forse appartato, aspettando, nel silenzio e nella solitudine, di saper com’era andata; poi, finalmente sapendolo, avrà tirato un sospiro per mettersi, quindi, a preparar il parsimonioso bagaglio per il viaggio, che lo attendeva, verso la “patria del Friuli”.