Parrebbe un singolare ostensorio, una lampada anomala, la base di un marchingegno per far girare lo spiedo sul fuoco. Invece è una tavola poliviscerale, recentemente portata alla luce, durante gli scavi di un santuario etrusco romano, legato alle acque e alla medicina. Siamo nel Santuario Ritrovato, a San Casciano dei Bagni, in provincia di Siena. Ecco la spiegazione degli archeologi:
·
“Tra i reperti più rilevanti riportati alla luce durante le recenti campagne figurano due placche poliviscerali in bronzo, al momento le uniche attestate in questo materiale. – spiegano gli archeologi – Si tratta di rappresentazione di visceri umani in cui possiamo riconoscere la trachea, i polmoni, il cuore, il diaframma, lo stomaco, il fegato, la milza e gli intestini (nei commenti trovate una foto di dettaglio). L’accuratezza della raffigurazione anatomica induce a pensare che siano stati mutuati da tavole anatomiche lignee, e che, in via del tutto ipotetica, vi fosse presso il santuario termale una scuola medica. La presenza di medici potrebbe essere testimoniata anche da uno strumento chirurgico (una sgorbia) rinvenuto all’interno del deposito votivo. Per quanto riguarda la datazione, entrambi i reperti si possono collocare tra il Il e gli inizi del I secolo a.C.”
“L’esemplare che in questo scatto tiene tra le mani Alessandra Fortini è costituito da un disco ovale piatto che in un secondo momento venne innestato su una base cilindrica. Questa base reca una dedica alla dea Fortuna da parte dello schiavo Atimetus, contabile della matrona Sulpicia Triaria (figura già attestata nel santuario) ed è significativa perché testimonia che l’ex voto metallico venne votato una seconda volta in una nuova realizzazione formale”. Evidentemente lo schiavo Atimetus voleva ringraziare la Fortuna per la soluzione di problemi generali di salute. Una sorta di ringraziamento al proprio “internista”. La placca potrebbe essere – nella modernità – simbolo di un reparto di Medicina generale.
I poliviscerali di San Casciano sono ora in mostra al Museo Archeologico di Napoli.
La mostra napoletana – aperta dal 16 febbraio al 30 giugno 2024 – presenta le straordinarie scoperte effettuate nel 2022 nel santuario termale etrusco e romano del Bagno Grande di San Casciano dei Bagni. L’allestimento, a cura del Direttore generale Musei, Massimo Osanna e di Jacopo Tabolli, professore dell’Università per Stranieri di Siena, si snoda come un viaggio attraverso i secoli all’interno del paesaggio delle acque calde del territorio dell’antica città-stato etrusca di Chiusi.
Presso il Bagno Grande è emersa parte del santuario etrusco e romano eretto attorno ad una vasca costruita in blocchi di travertino, profonda oltre quattro metri. La vasca esisteva già in età etrusca e poi fu ristrutturata e ingrandita durante il regno dell’imperatore Tiberio (I secolo d.C.) e accolse offerte votive fino al IV secolo d.C. Le offerte più antiche con statue si datano a partire dal III secolo a.C. e per tutto il II e il I secolo a.C. Sono state rinvenute deposte assieme nei primi decenni del I secolo d.C., a oltre tre metri di profondità e sotto un compatto strato di tegole. Gli unici reperti che provengono dallo strato di tegole sono un fulmine in bronzo e una freccia in selce che potrebbero rappresentare un fulgur conditum (il rito del fulmine sepolto). Secondo il principio dell’ars fulguratoria (l’arte di interpretare i fulmini), di tradizione etrusca, ciò che all’interno di un tempio o di un santuario veniva colpito da un fulmine doveva essere sepolto sul luogo stesso del prodigio e il fulmine stesso doveva essere “sepolto”. Il luogo del seppellimento – in questo caso la vasca stessa – veniva chiamata bidental.
Oltre venti statue e statuette, migliaia di monete in bronzo ed ex-voto anatomici raccontano una storia di devozione, di culti e riti ospitati in luoghi sacri dove l’acqua termale era usata anche a fini terapeutici. L’eccezionale stato di conservazione delle statue all’interno dell’acqua calda ha permesso anche di tramandare lunghe iscrizioni in etrusco e latino che raccontano delle genti che frequentavano il luogo sacro, delle divinità invocate e della compresenza di Etruschi e Romani attorno all’acqua calda.
La mostra, al MANN per la sua seconda tappa dopo l’esposizione presso le Scuderie del Quirinale, si arricchisce di quattro ‘nuovi’ pezzi fondamentali. La statua in bronzo di una figura femminile con le mani aperte per la preghiera e che indossa un chitone e un mantello, rinvenuta nell’insieme di offerte all’interno della vasca sacra, in un gruppo di statue che abbracciavano un grande tronco di quercia.
Il secondo è la base di un donario in travertino, che eccezionalmente presenta un’iscrizione ‘bilingue’. La metà destra dell’iscrizione è redatta in etrusco, da destra a sinistra, mentre la metà sinistra è in latino, con una lettura da sinistra a destra. Si tratta di un documento eccezionale dell’uso pubblico dell’etrusco ancora all’inizio dell’età augustea. L’espressione dell’entità della divinità, che sta parlando nelle due lingue, sintetizza l’esistenza di destinatari diversi in comunità molteplici accolte dal santuario, con l’esigenza di essere compresi da tutti.
Dalla campagna di scavo del 2023 al santuario del Bagno Grande provengono numerosi nuovi bronzi, riconducibili alle pratiche religiose e rituali di questo luogo di cura termale. Tra questi, benché di piccole dimensioni, spicca un reperto che può essere inserito nel gruppo degli ex-voto anatomici. Si tratta probabilmente di un rene in versione miniaturistica. Infine, intagliato in un prezioso frammento di cristallo di rocca bianco e perfettamente trasparente, con rare e impercettibili impurità, un pendente a forma di pesciolino. Il cristallo di rocca era ritenuto nell’antichità portatore di numerose proprietà benefiche e mediche, oltre ad essere usato come lente ustoria per curare le ferite, ed essendo creduto ghiaccio pietrificato era reputato utile a preservare il sonno dei defunti e ritardarne il disfacimento del corpo. Si data ai primi decenni del I sec. a.C. ed è stato rinvenuto presso la sorgente di acqua fredda esterna al tempio, dentro un focolare, in connessione con una lama di coltello in ferro. Evidentemente parte di un’azione rituale avvenuta prima delle trasformazioni del tempio seguite alla caduta del fulmine in età tiberiana.