di Stefania Mattioli
Non è una fotografia e nemmeno una pittura su vetro, bensì una forma ibrida e assai duttile che può considerarsi l’antesignana della proiezione cinematografica. Si tratta del procedimento di autocromia, ossia del primo metodo efficace applicato per “fotografare il colore”.
Ideata e brevettata dai famosi fratelli Lumière nel 1903, tale pratica si è rivelata fondamentale per l’evoluzione della tecnica fotografica ponendosi come termine medio fra arte e scienza; due discipline che, dalla seconda metà dell’Ottocento, risultano sempre più unite da un rapporto sinergico di interscambio che passa con disinvoltura dalla teoria alla sperimentazione. Ciò è vero a tal punto che lo sviluppo dell’autocromia trae ispirazione e trova fondamento nelle disquisizioni teoriche del movimento neoimpressionista, che vede in Georges Seurat (1859-1891) e Paul Signac (1863-1935) i suoi interpreti più autorevoli. L’occasione per analizzare e porre in relazione le differenti questioni – pittura, fotografia e scienza – è il saggio di Silvana Turzio pubblicato da Skira.
Per comprendere la svolta epocale che coinvolge “tutti i campi del sapere” è necessario considerare l’intuizione di Thomas Young (1773-1828): la visione delle sfumature dei colori viene generata dai ricettori presenti nell’occhio umano, capaci di reagire in modo diverso alle differenti frequenze presenti nella radiazione luminosa. In sintesi, i colori sono una creazione della mente e come tali – conferma Signac – “rifiutano qualsiasi mescolanza”.
Se è vero che accertare il funzionamento dei processi con cui si fa l’esperienza del reale diventa nell’Ottocento esigenza comune per arte e scienza, è altrettanto vero che la tavolozza neoimpressionista si compone di colori puri che, stesi per piccoli segni uguali e giustapposti, vengono impiegati con metodo rigoroso fondato sulla divisione del tono. E’ assodato: le tinte vanno semplicemente accostate fra loro, lasciando che siano occhio e cervello – alla giusta distanza, s’intende – a compiere l’artificio della percezione.
Tale convinzione trova conferma nella teoria formulata nel 1839 da Eugène Chevreul, il quale dimostra che l’effetto di un colore dato è sempre influenzato dai colori ad esso vicini che, per via del “contrasto simultaneo”, tendono a proiettare l’uno sull’altro il rispettivo colore complementare. Decisivo nell’evoluzione della stessa teoria è l’apporto scientifico di Odgen Rood, il quale distingue il “colore luce” dei raggi luminosi e il “colore materia” dei pigmenti, poiché il loro impiego conduce ad esiti diversi. Se la mescolanza dei colori luce aumenta la lividezza e tende al bianco, l’unione dei colori materia altera la luminosità e tende al grigio.
In parallelo la ricerca fotografica si interroga su come restituire concretamente ciò che l’occhio registra, e ripercorre così il cammino intellettuale già intrapreso con successo da divisionisti e neoimpressionisti.
Va ricordato che nel 1850 l’immagine fotografica non è ancora un dispositivo della rappresentazione visiva bensì una “protesi dell’occhio”, un “più di vedere” che non gode di un’autonomia estetica propria. I primi risultati concreti – dopo un timido tentativo di mettere a punto un sistema di colorazione per mezzo del sole – si ottengono nel 1867-69 grazie alle sperimentazioni di Charles Cros e Louis Ducos du Hauron che conducono alla “fotografia tricromatica”.
All’insaputa uno dell’altro, i due mettono a punto un sistema di fotografia del colore basato sull’impiego di “tre lastre di vetro che fissano analiticamente i tre colori primari in trasparenza”. Ossia, le tre lastre positive sovrapposte (diafania) restituiscono all’occhio umano “come per magia” un quadro che offre colori e contrasti di luce e ombra simili a quelli del modello. Gli unici difetti del metodo risiedono nella sua intrinseca inaffidabilità e inaccessibilità. Alla fine l’autocromia si guarda controluce, come una diapositiva,senza proiettore.
Successivamente è John Joly a perfezionare un sistema reticolare composto da linee sottilissime nei tre colori primari da sovrapporre, sempre in trasparenza, all’immagine positiva e che alla giusta distanza – proprio come un quadro di Signac – danno vita ad una visione a colori.
E’ seguendo questo percorso che i fratelli Lumière arrivano all’autocromia, mossi dal desiderio di mettere a punto un procedimento industriale per la fotografia dei colori. Con arguzia fanno tesoro di quanto accaduto sino ad allora, studiano la tecnica adottata dagli stampatori e applicano la teoria del reticolo di Hauron. Ma non solo. Hanno un’intuizione geniale: dopo anni di ricerca individuano il tassello mancante, ossia quell’insieme di elementi microscopici in grado di essere colorati nelle tre dominanti luminose. Lo fanno con dedizione… culinaria, poiché l’ingrediente mancante è la fecola di patate. Sembra incredibile, ma sono proprio i microgranuli di quella farina così fine, “duttile e affidabile” ad aprire nuove strade all’immagine, e la ricetta della prima lastra a colori è presto fatta.
Predisporre su un piano di vetro settemila granuli millesimi di fecola di patate per millimetro divisi secondo proporzioni attentamente calibrate, colorare i granuli separatamente e pressarli sino a costituire una superficie omogenea. Dosi consigliate: sette parti di blu-viola, otto parti di verde e cinque di rosso-arancio. Preparare un’emulsione di gelatina d’argento pancromatica (materia sensibile a tutti i colori) e applicarla con cura sullo strato precedente. Chiudere il tutto con un secondo piano di vetro trattato per aumentare la trasparenza. Otterrete così un’immagine a colori che – attenzione – non può essere stampata ma solo guardata controluce. Una visione per così dire effimera, affascinante e mutevole, soggetta ai cambiamenti della luce, ai movimenti di chi la tiene tra le mani e alle vibrazioni aeree.
Come spiega Turzio, “un oggetto inclassificabile: fotografico eppure non riproducibile, opaco e trasparente, bellissimo e sottovalutato, innumerevole e quasi sconosciuto”.